lunedì 20 febbraio 2012

La Solitudine

In questi racconti del Pleistocene il tema principale è la Solitudine, ma non quella positiva che ispira e produce rumore, o meglio, musica; qui si tratta di una solitudine negativa, quasi straziante, una solitudine che, per fortuna, non mi appartiene più, sconfitta dalla voglia di vivere e dalla "luce". 

VIALE SOLITUDINE
  
Sabato sera di fine gennaio. Dopo aver trascorso un venerdì notte a bere porcherie in vari localetti della provincia, mi sentivo veramente giù. Tra l’altro il sabato sera dalle mie parti è il giorno consacrato all’uscita con la morosa, per cui quella sera sapevo già che uscendo e recandomi al punto d’incontro della mia compagnia, il BarBaro, avrei trovato solo Fetuso e Smoke, gli unici due sfigati insieme a me che nessuna donna avrebbe mai filato, nemmeno per pietà.
    Uscii di casa senza fare tappa al BarBaro e mi diressi in città. Mi era venuta un’idea carina: siccome erano già più di tre mesi che non scopavo (l’ultima volta era stato con una stupenda prostituta di Amsterdam, l’estate scorsa, quando avevo trascorso qualche giorno di vacanza in Olanda con Smoke), una bottarella con una bella slava – per me le migliori tra quelle che battono i viali cittadini – ci stava a pennello. Vorrei far notare che in vita mia ho quasi sempre scopato in cambio di denaro, ma per quelli come me, “brutti, sporchi e cattivi”, è dura tirare avanti altrimenti. Siamo figli della solitudine e prendiamo a calci in culo la vita, perché ci ha ingannati buttandoci nell’arena disarmati.
    Giunto sui viali accostai la Panda al marciapiedi; avevo notato una ragazza dal viso dolcissimo che non doveva avere più di ventidue ventitré anni.
    “Come ti chiami?” le chiesi.
    “Maida.”
    “Quanti anni hai Maida?”
    “Diciotto.”
    Provai un fremito di compassione per quella fragile creatura, probabilmente incappata in qualche giro malavitoso e strappata agli affetti più cari per vendere la sua purezza in una lontana e squallida città italiana. No non sono uno schifoso, pensai, non la userò come ho usato tutte le altre puttane; la amerò se mi permetterà di amarla.
    “Quanto vuoi per sco… fare l’amore?” domandai.
    “Cinquantamila bocca figa. No culo.”
    “E in camera? Ce l’hai la camera?”
    “Camera centomila.”
    Andammo nel suo appartamento, un buco dove chissà quanti uomini – turpi derelitti come me – erano già passati. Era un angusto monolocale con un bagno sudicio e piccolissimo ed un letto a due piazze. Quest’ultimo era l’unico oggetto della stanza a sembrare pulito; tutt’intorno invece, pur senza notarsi chiaramente, si percepiva un senso di sporcizia, disordine e squallore. C’era puzza di piscio e fumo misti a profumo (forse quello usato dalla ragazza), tanto da rendere l’aria sgradevole, quasi nauseabonda.
    Volli parlare un po’ prima di consumare la prestazione insieme ad un’altra fetta di autostima, ma Maida non aveva voglia di ascoltarmi. Iniziai ad accarezzarla, lei si alzò dal letto di scatto e andò in bagno. Andai in bagno anch’io e la sorpresi china sul lavandino intenta a tirare della coca. Puah!, la coca: l’anno scorso con una prostituta nigeriana feci una figura terribile; non che mi importasse troppo fare figuracce con le puttane ma quella sera, sul mio Pandino, dopo aver tirato della fecola il mio gioiello non ne voleva sapere di alzarsi, era morto stecchito. A me quella roba fa quell’effetto lì, è per questo che non la uso mai se devo scopare.
    Maida mi chiese generosamente se volevo favorire e io ovviamente rifiutai. Tornammo in camera e cominciammo a spogliarci; tentai di baciarla ma lei si arrabbiò e respinse le mie labbra lontano dalla sua bocca. Stupida puttanella, pensai in quel momento, se solo fossi meno fredda e più accondiscendente potrei anche cambiarti questa tua vita di merda, farti uscire da questo schifo. Fantasticavo un’esistenza più decente per lei e per me, insieme; io salvavo la sua vita e davo una svolta alla mia, come in quelle favole che finiscono con il classico “e vissero tutti felici e contenti”. I miei sogni ad occhi aperti vennero bruscamente interrotti quando mi infilò un preservativo e cominciò a lavorare di bocca. Pochi istanti dopo la penetrai e me ne venni dopo pochi colpi mentre lei fingeva di godere. Tutto era finito, come finita era la mia dignità.
    Quando salii in macchina per tornare verso casa a vedere di recuperare Fetuso e Smoke, mi venne da piangere. Pensai a Lisa. Lisa è l’unica ragazza che considero mia amica; siamo cresciuti insieme, dall’asilo fino alle scuole superiori. Solo che mentre io sono sempre stato cotto di lei, lei mi ha sempre considerato come un fratello. Non ho mai capito come funzionano ‘ste cose da donne, fatto sta che la storia è questa: siamo diventati adulti e mentre io sono rimasto il povero innamorato non corrisposto che per campare fa l’operaio in una ditta che produce suole per scarpe, Lisa è diventata una stimata arredatrice che ha sposato Michele Bonfiglio, quel bullo di un nostro compagno delle superiori, avvocato, ricco, bello e tanto stronzo.
    Non so perché pensai a queste cose; a volte il passato ritorna a ricordare ai falliti che sono tali. “Se mi si guardasse per quello che ho in fondo al cuore, forse, potrei illuminare due sentieri sterrati e farne una strada lastricata d’oro” riflettei sostituendo Lisa con Maida nella mia mente.
    Mentre imboccavo un tratto di viale per immettermi in tangenziale, non vedo la Mercedes del Bonfiglio con lui alla guida che carica una Nigeria! Da non crederci, cioè, sapevo che era sempre stato un dongiovanni a cui bastava una strizzatina d’occhio per farsi  tutte le ragazze che voleva (e quante se ne era fatte!!!), ma adesso che era sposato con Lisa e aveva tre figlie piccole pensavo si fosse calmato. E poi a puttane non ce lo vedevo proprio, pensavo che uno come lui non sapesse neppure cosa fosse una prostituta. Guarda guarda Michelone: pensi al diavolo e spuntano le… corna… Povera Lisa! Gli sono stato dietro per un po’ con la Panda, poi ho messo la freccia, mi sono affiancato alla Mercedes e ho suonato il clacson; quando si è voltato posso assicurare che se avesse visto un fantasma avrebbe assunto un’espressione meno grottesca e spaventata. Gli ho strizzato l’occhio salutandolo, l’ho sorpassato e sono tornato verso il BarBaro.
    Anche se l’affetto e l’amicizia che ci lega – nonché, non posso negarlo, un briciolo di antipatia e invidia nei confronti di Michele – mi invoglia a farlo, a Lisa non dirò niente. Forse perderei anche il “premio di consolazione” dell’amicizia, forse non mi crederebbe mai, forse rovinerei solo una famiglia felice o pseudotale. E comunque non sono fatti miei, il buon marito può stare tranquillo. Lisa ha fatto la sua scelta, ha trovato l’uomo dei sogni, il buon partito, e credo che morirà ignara di quello che c’è sotto la maschera, ignara come Maida, ignara di ciò che le avrei potuto dare se mi avesse mostrato dolcezza, comprensione, amore. Ci sono talmente tante persone finte là fuori; basta abbassare un attimo il finestrino della Panda che l’odore di falsità invade l’abitacolo. Tra i miei pochi pregi, sono orgoglioso di avere almeno quello dell’onestà e della sincerità. Nessuna maschera può coprire quello che sono, uomo nudo, solo e deluso.
    Che strano, una volta messo piede dentro al BarBaro, rivisti Smoke e Fetuso, ero tornato di buon umore; una strana felicità mista a un forte senso di malinconia permeava il mio cuore. Mi sono sentito come il biglietto del primo premio della lotteria miliardaria smarrito dal possessore: varrei una fortuna, ma non verrò mai incassato.

UNA SERA AL BAR PINETA

Il cielo è terso, privo di nuvole. Il tramonto colora la città coi suoi pastelli rossi e arancio e marroni mentre tutto emana energia fuori, già, fuori, ma fuori dove? Dentro, seduto ad un tavolo del bar Pineta, intento a giocare a scala quaranta con Fabri, il Rosso e Cambogia tutto è statico, non c’è pathos. D’altra parte come potrebbe? Lo capisco solo dopo l’ennesima birra, la sesta forse. Al di là della vetrata, sulla strada, transitano ragazzi e ragazze, uomini, vecchi, bambini, storpi ed effeminati, puttane e barboni. Mentre scendo con due tris d’assi e uno di donne – scartando un re di picche – guardo fuori e mi soffermo col pensiero su quel pulsare di cosmica vitalità; persino l’ultimo derelitto sulla faccia della terra mi appare più fortunato di me all’esterno del Pineta.
    “Che cos’ho che non va?” mi domando osservando il jolly appena pescato che non mi consente, metafora della mia pedestre esistenza, di chiudere la partita una volta per tutte. Quattro carte in mano, un jolly e non riesco a vincere. Scarto un fante di cuori. Cos’ho dunque che non va? Cosa abbiamo che non funziona noi topi da bar che a quarantacinque anni ci sentiamo vecchi, apatici, stanchi come chi dalla vita ha ricevuto solo bastonate? Facciamo parte di una generazione perdente, come affermò una volta Cambogia: “La nostra ragazzi si chiama Generazione Inerzia”. Forse aveva ragione.
    Mi accendo una sigaretta, come se non ci fosse già abbastanza fumo in quei due metri quadrati che occupiamo io, il Rosso, Fabri e Cambogia, tutti occupati a giocare, in silenzio, fumando una sigaretta dopo l’altra, una birra dopo l’altra, un giorno dopo l’altro. Cosa significa giocare a carte? Passarsi il tempo? Perché abbiamo sprecato tutto quel tempo fino ad oggi (e continueremo a farlo) mentre là fuori, oltre l’opaco vetro il mondo pullula di opportunità? Le opportunità sono per chi se le crea, non per noi, uomini vinti dal tempo e dallo spazio: non abbiamo più scampo, imbelli scommettitori di spiccioli e birrette.
    Beppe, il titolare, ci avverte che tra dieci minuti chiude bottega. Gli dico che abbiamo quasi finito, un’altra birra per tutti e ce ne andiamo, offro io il giro ai ragazzi. Tocca di nuovo a me pescare: un altro jolly e, incredibile, non riesco ancora a chiudere. Sono troppo sfigato! O forse non sono bravo, fatto sta che pesca il Rosso e chiude la partita. “Ho vinto!” esclama l’amico. Mi alzo vacillante, trangugio tutto d’un fiato la birra che ha appena portato Beppe e dico: “No, non hai vinto. Nessuno ha vinto. Noi, Rosso, non si vince”.
    Esco dal bar Pineta avviandomi verso casa; la sera è fresca, si sta bene e si respira una brezza positiva: sembra che l’amore e la speranza, la felicità e tutto ciò che di bello c’è al mondo mi aspettino dietro l’angolo. Svolto l’angolo e ci trovo solo il desolato viale alberato che conduce all’appartamento dove abito. Tutto è un’illusione, l’alcol mi sta ingannando. Io sto invecchiando e ho paura. Dopo aver superato i venticinque anni ho avuto l’impressione che il tempo volasse via al ritmo di un anno ogni sei mesi e temo che sarà sempre più celere… Mah! Forse sono solo troppo ubriaco, troppo ubriaco anche per avere dei sogni e focalizzare una vita fatta su misura per me. Non chiedo tanto: una donna di poche pretese, casalinga e madre attenta, uno o due figli, un lavoro migliore del mio attuale di magazziniere, due soldi in più, un televisore con megaschermo per riunire gli amici a casa e seguire le partite della nostra squadra del cuore senza doverci rintanare nella bolgia del Pineta. Infine una vecchiaia tranquilla e appagata. No, non chiedo tanto alla vita o a quel famoso dio, se esiste. O a me stesso! Boh, ora so solo che non posso tornare a casa conciato così.
    Mi siedo su una panchina nell’attesa che evapori un po’ la sbronza. Mi sdraio. Il sonno alcolico mi trasporta in un mondo onirico abitato da mostri ed esseri demoniaci. Quando mi sveglio non c’è più nessuno in giro; è notte fonda e la prima cosa che mi passa per il cervello è che domani sarò troppo sobrio e impaurito per affrontare la vita. Per quelli come me, il Rosso, Cambogia, Fabri, per noi quarantacinquenni della Generazione Inerzia è più comodo vincere una partita a carte che non scommettere contro il destino per cercare di cambiarlo; per quelli come noi non ci sono mai state prospettive perché non abbiamo saputo (o errore ancora più grave: non abbiamo voluto) giocarci i jolly che la vita, sia pure infame e stronza finché si vuole, ci ha fatto pescare per strada ogni tanto.
    Mi accingo a varcare il portone del civico numero 21. E’ probabile che mia madre mi stia ancora aspettando davanti al televisore acceso (a me le carte, a lei la tv!). “Non ti preoccupare Mà, ero a giocare a scala con gli amici del Pineta” le dirò. Così se ne andrà a dormire serena e inconsapevole, come quell’uomo sprecato che è divenuto ormai suo figlio.


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