La
storia che sto per raccontarti ora, della quale sono stato testimone
“obbligato”, sembra uscita direttamente da un film dell’orrore, ma ogni singolo
fatto che avviene in essa è pura, raccapricciante realtà. La racconto
esclusivamente a te perché sono certo che non svelerai mai a nessuno il
contenuto di questa missiva: se ti conosco bene come credo, ho questa sicurezza.
E’ molto probabile che anche tu mi conosca:
sono Gilberto Biagi e vivo nello stesso ameno paesello di campagna dove tu sei
cresciuto e dove a lungo hai abitato prima di diventare un affermato scrittore
fuori da qualsiasi schema. Come presumo tu sappia, di mestiere faccio il
coltivatore diretto: sono un contadino, come amo ancora definirmi
orgogliosamente. Io e la mia famiglia – moglie e tre figli di tre, sei e otto
anni – possediamo un piccolo podere a ridosso degli argini del fiume Terno e la
nostra casetta, ivi costruita, è piccola ma tanto accogliente. Tutti in paese
ci vogliono bene. Generosità e disponibilità sono doti che io e mia moglie
Fiammetta andiamo fieri di possedere.
Ora, io non sono molto bravo a scrivere; sì
e no avrò letto una decina di libri in vita mia (tra i quali due dei tuoi!), ma
questa storia mio carissimo e inconsapevole pigmalione,
deve essere assolutamente raccontata, anche perché i media e il processo che
seguì al famosissimo caso dei cinque ragazzi di Cargi scomparsi (dove sono
stato chiamato a deporre), non hanno mai fatto luce sulla vicenda e questo lo
sai bene anche tu.
Veniamo ai fatti. Il venticinque giugno
dell’anno scorso ero solo in casa. Fiammetta e i miei figlioli Luca, Lia e
Leika, si erano recati in paese per fare delle compere. In un raro momento di
relax giornaliero stavo guardando la televisione, quando udii bussare alla
porta. Andai ad aprire e mi trovai di fronte la facciona tonda e imporporata di
Pino Pulga, il mio vicino di casa. Notai subito il suo sguardo fermo e deciso,
ma prima di raccontarti ciò che accadde un istante dopo, voglio spiegarti bene
chi è Pino Pulga e perché il suo folle gesto mi scosse per sempre dalla mia
adorata monotonia quotidiana.
Forse pure tu conoscerai qualche particolare
della vita di Pino, detto Tortellino a causa del suo pantagruelico appetito,
però io ti farò luce sulla vera storia del mio amico. Amico? Più che amico:
un’amicizia fraterna ci legava sin dall’infanzia; la sua giovinezza era filata
via insieme alla mia senza grossi scossoni, almeno per quel che mi risulta. La
nostra più grande differenza stava nel fatto che lui odiava il clima moralista
, ipocrita e buonista di Cargi, a sua detta paese troppo soffocato dall’afa
cattolica dei suoi abitanti. Io invece sono sempre stato un buon cristiano
praticante senza che ciò interferisse nel nostro rapporto: io rispettavo lui e
lui rispettava me, soprattutto perché non mi includeva nella categoria di
persone sopra citate.
Si era sposato due anni prima che mi sposassi
io, ma qualche settimana prima del giorno delle mie nozze con Fiammetta, la
moglie di Pino morì in un incidente stradale alle porte del paese: era incinta
di tre mesi come ricorderai forse dalle cronache regionali e nazionali del
tempo. Neppure io lo sapevo. Il povero Tortellino uscì distrutto da quel dramma
e dopo aver mascherato con immenso sforzo il suo dolore, partecipò al nostro
matrimonio, poi, conclusasi la cerimonia sparì nel nulla.
Non ebbi sue notizie, come del resto
l’intera nostra comunità (non aveva neppure parenti in vita), per circa sei
mesi. All’improvviso eccolo riapparire di nuovo: era dimagrito almeno dieci
chili e i suoi ispidi capelli neri erano ora brizzolati; la sua carnagione mi
sembrava molto più olivastra di quanto ricordassi. Pareva un’altra persona. O
forse, più semplicemente, era
un’altra persona.
Durante la sua assenza gli avevo curato l’orto e badato la casa; mi
ringraziò calorosamente per questo ma non mi volle dire cosa aveva combinato in
quei sei mesi. E nessuno lo seppe mai, tanto che le congetture più assurde e
fantasiose si alimentavano quotidianamente nella piazza di Cargi.
Tortellino tornò alla sua vita di sempre
nei campi, con la solita dedizione e sacrificio. Aveva cambiato solo
l’abitudine serale del bar e della briscola tra amici: in effetti non usciva
mai in paese se non una volta alla settimana per fare qualche spesa. Io lo
invitavo spesso a cena a casa nostra, ma lui rifiutava sempre garbatamente. Si
era chiuso in un mutismo cupo, da cui nulla pareva destarlo. Nessuno avrebbe
riconosciuto in Pino il burbero ciarlone che era una volta. Visse così, in
mesta solitudine per circa dieci anni.
Ed eccoci al venticinque giugno. Aperta la
porta mi vidi puntare contro il fucile a canne mozze di Tortellino: “Seguimi
senza tante storie” mi disse in tono minaccioso. Ovviamente eseguii i suoi
ordini nonostante la sorpresa e l’angoscia mi paralizzassero. In assoluto
silenzio mi condusse nella sua stalla e qui mi legò le mani ad un vecchio giogo
appeso al muro, poi con voce cordiale, quasi addolcita d’incanto, mi disse:
“Non ti preoccupare caro Berto, non ti accadrà nulla. Ora assisterai al
processo, allo spettacolo della morte che entra in scena per recitare atti di
giustizia.”
Davanti a me si ergeva una specie di rozzo
teatrino, costruito probabilmente in poche ore da Pino non molto tempo prima,
dato che il giorno antecedente, passando accanto alla stalla non avevo notato
nulla.
Si aprì il sipario (un lungo lenzuolo rosso
appeso ad una trave) ed io sgranai gli occhi: cinque ragazzi erano legati ed
imbavagliati su altrettante sedie sistemate sopra un tappeto di nylon. Impiegai
diversi secondi per capire che erano cinque giovani del paese, tutti figli o
parenti di persone che conosco (e credo pure tu) molto bene, gente di chiesa
che incontravo tutte le domeniche nella Casa del Signore e con la quale mi
intrattenevo spesso a chiacchierare di cose più o meno futili. Come sai bene
quei ragazzi erano: Giacomo Lenzi, di ventinove anni, figlio del diacono Giovannino
Lenzi; Guido Fabbri, di venticinque anni, figlio del sacrestano Paolo Fabbri;
Samuele e Primo Tassi, di venticinque e ventisette anni, nipoti di don Gino
Tassi; Roberto Zaccarini, di ventisette anni, figlio della perpetua Ilenia
Boselli.
“Ti prego Pino, non fare
pazzie! Cosa vuoi fare a questi ragazzi?” lo implorai.
“Prima di eseguire la condanna, voglio
raccontarti una storia…”
Mi fece così luce sul suo dramma e sulla
“latitanza” iniziata dopo la morte della moglie. La notte dell’incidente, un
amico di quegli stessi cinque ragazzi (ricordi Marco Cappato, il figlio del
gommista?) che vedevo ora terrorizzati davanti a me, si era recato da Pino e
gli aveva rivelato che i suoi amici avevano scagliato una grossa pietra giù dal
ponte di San Rocco, sito poco fuori Cargi, e avevano centrato in pieno il
parabrezza dell’auto su cui viaggiava la consorte del Pulga. La donna, che
andava a forte velocità, si schiantò contro il muro di recinzione di una
villetta disintegrando completamente la vettura. Siccome la pietra non venne
rinvenuta e nessun testimone aveva assistito al sinistro, i carabinieri
archiviarono la pratica e Maria Cappellari in Pulga risultò deceduta per
incidente automobilistico causato da un presunto colpo di sonno e dall’alta
velocità.
Marco raccontò a Tortellino di aver cercato
di impedire il folle gesto ma una volta centrato il bersaglio era stato
seriamente minacciato di non aprire bocca sull’accaduto. Disse anche che dopo
la disgrazia i cinque giovani se ne erano andati felici e chiassosi a
festeggiare l’impresa in un pub non lontano. Il Cappato se ne era tornato a
casa sconvolto e alcune ore dopo sarebbe andato a far visita allo straziato
Pino, il quale lo pregò di non rivelare a nessun altro ciò che gli aveva appena
confidato: nella sua mente e nel suo cuore in quel momento si era spezzato
qualcosa. Ricevute le dovute garanzie, Tortellino attese impazientemente il
giorno del mio matrimonio, dopodiché fece i bagagli e partì, così, senza meta
per le strade italiane. Covando la sua vendetta si stabilì per un mese ad
Ortona, in casa di un amico di vecchia data con il quale aveva fatto il
militare anni addietro; si trasferì poi a Gaeta, non so bene per quale motivo,
ma qui - i casi della vita! - vinse tre miliardi al Totocalcio. Questo fatto lo
portò inevitabilmente a rivalutare alcuni aspetti della sua vita futura. Decise
così di starsene lontano da casa ancora qualche mese; in tal modo il suo piano
avrebbe avuto il tempo di essere meticolosamente perfezionato. Andò in Francia,
a Marsiglia, dove stette per altri due mesi ospitato da parenti della defunta
moglie, poi via di nuovo, questa volta destinazione Messico. Quando rientrò a
Cargi, il suo diabolico disegno era perfettamente delineato nella sua mente di
uomo provato.
Dieci anni ci vollero prima che mettesse in
atto il suo progetto; non aveva fretta, lasciava che la vendetta covasse sotto
la cenere del suo cuore bruciato. Alcuni anni prima aveva tentato di mettere in
pratica la ferale serie di alchimie cerebrali propedeutiche alla riuscita del
suo scopo, però non si erano verificate le condizioni favorevoli. Poi, eccoci
al momento della resa dei conti: i cinque amici abboccarono tutti alla storia
che Tortellino fece raccontare loro da Marco Cappato, precedentemente
“ricompensato” con un centinaio di milioni della super vincita al Totocalcio.
“Ragazzi, la casa di Tortellino è
momentaneamente incustodita. Lui è lontano da casa per motivi di salute e… beh,
si dice in giro che abbia oro e preziosi per miliardi sparsi là dentro.” Così riferì Marco e tutti
e cinque gli inseparabili compagni abboccarono all’amo del mortal destino. Quando quella sera entrarono nella casa
“incustodita” del mio amico, si ritrovarono come il giorno dopo mi trovai io,
con il fucile puntato contro. Pino li costrinse a bere del sonnifero per non
avere problemi nel legarli ed eccoli tutti lì in fila, svegli e impauriti come
non mai.
“Ma perché vuoi farmi vedere tutto questo
Pino? Perché proprio a me?” E se tornassero mia moglie e i miei figli?” dissi
io.
“Tua moglie e i bambini non rincasano mai
prima di mezzogiorno durante l’estate ed ora sono appena le dieci e quindici.
Per quanto riguarda te amico mio, è proprio perché ti voglio bene se sto
cercando di aprirti gli occhi.”
“Che vuoi dire? E se decidessi di riferire
tutto alla polizia? Tu… tu sei pazzo! Stai per commettere un crimine
spaventoso!”
Seguì una lunga pausa. Riprese: “No Berto,
non racconterai niente a nessuno. Quando ti avrò liberato, tu sarai dalla mia
parte. Sarai anche tu un uomo diverso.”
Lo osservavo allibito. Sentivo la gola
secca e stavo probabilmente cercando di fare un ultimo tentativo per farlo
desistere dal suo intento quando pose fine alla discussione. Il verdetto ormai
era stato emesso: “Chiunque creda nella giustizia terrena o celeste è solo un
fesso. Questa è la nemesi storica che distrugge il frutto marcio di un albero
putrescente. Questa è la vera giustizia.” Dichiarò questo, dopodiché infilò una
specie di toga da giudice, afferrò un machete affilatissimo e diede inizio alla
mattanza. Enunciato in tono solenne il nome, l’età e il grado di parentela che
legava ogni singolo ragazzo al già citato padre, madre o zio, mozzò loro la
testa uno ad uno, in una escalation adrenalinica di accecante delirio.
Stranamente non provavo ribrezzo nel vedere
tutto quell’orrore. Mi vennero in mente le parole pronunciate da Tortellino
poco prima: “Quando ti avrò liberato, tu sarai dalla mia parte. Sarai anche tu
un uomo diverso.” Stentavo a crederci; non potevo essere io, Gilberto Biagi,
cristiano praticante, buon padre di famiglia e lavoratore indefesso quel mostro
che quasi provava un senso di sollievo nell’assistere a quel massacro. Eppure…
Pino avvolse i cadaveri nel nylon, li
caricò sul suo furgoncino e dopo avermi liberato si scusò per come mi aveva
trattato. Mentre mi parlava mi scrutava con sguardo ipnotico, al quale io non
seppi reagire se non per dire con voce fievole “ci vediamo”. Andò a murare quei
corpi e quelle teste tagliate nel cemento che avrebbe fatto da fondamenta alla
villetta che stava costruendo a Pive, non lontano da Cargi.
Rientrato in casa dalla stalla dell’amico
quella mattina, fu solo allora che mi resi realmente conto di ciò che era
accaduto. Quei ragazzi erano tutti figli o nipoti di gente religiosissima che
come il sottoscritto aveva intravisto nella Chiesa e in Gesù nostro Signore la
strada giusta per garantirsi la felicità terrena e l’eternità celeste,
purtroppo però non avevano fatto i conti con la dannazione dei loro giovani,
nonostante i loro rigidi e un po’ bigotti canoni educativi avrebbero voluto
imporre ben altri insegnamenti. Quando rincasò mia moglie decisi di non dir
nulla sull’accaduto: tra me e Tortellino, non so come e perché, in quella
stalla si era creato un tacito accordo di collaborazione.
Alcuni giorni dopo la scomparsa dei cinque
giovani, le indagini della polizia (non riesco a spiegarmi come possano aver
fatto!) si incanalarono proprio nella direzione di Pino, ma al processo durante
la mia testimonianza lo scagionai affermando che la notte in cui erano spariti
i ragazzi, egli era in casa sua in compagnia dello spirito della moglie e del
frutto che portava in grembo. E devo aggiungere che durante le varie udienze,
la disperazione di quei parenti distrutti dal dolore non ha mai minimamente
impietosito il mio cuore.
Il mistero della sparizione dei cinque
giovani cargilesi è a tutt’oggi uno dei grandi casi insoluti della giustizia
italiana; anche se – permettimi la considerazione – paradossalmente, non poteva
esserci giustizia più equa di quella esercitata da Pino. Dopo tutto non ha
fatto altro che liberare il mondo da cinque parassiti e l’estate prossima io e
la mia ignara famiglia , andremo a trovarlo allo “Scalpo” di Acapulco, il
ristorante sull’oceano che ha aperto da poco, dove potremo gustarci le
specialità italiane e messicane tornando finalmente a sorridere sul futuro che
ci attende.
Cordiali saluti,
Un ammiratore
RISPOSTA ALLA LETTERA DI
GILBERTO BIAGI
Che Iddio ti benedica!!!
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