mercoledì 14 marzo 2012

TORTELLINO

"Tortellino" è un racconto del 1999 se non erro. La passione giovanile per Edgar Allan Poe e Stephen King si dovrebbe notare tra le righe di questa storia di sangue e vendetta. Godetevela se vi va.


La storia che sto per raccontarti ora, della quale sono stato testimone “obbligato”, sembra uscita direttamente da un film dell’orrore, ma ogni singolo fatto che avviene in essa è pura, raccapricciante realtà. La racconto esclusivamente a te perché sono certo che non svelerai mai a nessuno il contenuto di questa missiva: se ti conosco bene come credo, ho questa sicurezza.
    E’ molto probabile che anche tu mi conosca: sono Gilberto Biagi e vivo nello stesso ameno paesello di campagna dove tu sei cresciuto e dove a lungo hai abitato prima di diventare un affermato scrittore fuori da qualsiasi schema. Come presumo tu sappia, di mestiere faccio il coltivatore diretto: sono un contadino, come amo ancora definirmi orgogliosamente. Io e la mia famiglia – moglie e tre figli di tre, sei e otto anni – possediamo un piccolo podere a ridosso degli argini del fiume Terno e la nostra casetta, ivi costruita, è piccola ma tanto accogliente. Tutti in paese ci vogliono bene. Generosità e disponibilità sono doti che io e mia moglie Fiammetta andiamo fieri di possedere.
    Ora, io non sono molto bravo a scrivere; sì e no avrò letto una decina di libri in vita mia (tra i quali due dei tuoi!), ma questa storia mio carissimo e inconsapevole pigmalione, deve essere assolutamente raccontata, anche perché i media e il processo che seguì al famosissimo caso dei cinque ragazzi di Cargi scomparsi (dove sono stato chiamato a deporre), non hanno mai fatto luce sulla vicenda e questo lo sai bene anche tu.
    Veniamo ai fatti. Il venticinque giugno dell’anno scorso ero solo in casa. Fiammetta e i miei figlioli Luca, Lia e Leika, si erano recati in paese per fare delle compere. In un raro momento di relax giornaliero stavo guardando la televisione, quando udii bussare alla porta. Andai ad aprire e mi trovai di fronte la facciona tonda e imporporata di Pino Pulga, il mio vicino di casa. Notai subito il suo sguardo fermo e deciso, ma prima di raccontarti ciò che accadde un istante dopo, voglio spiegarti bene chi è Pino Pulga e perché il suo folle gesto mi scosse per sempre dalla mia adorata monotonia quotidiana.
    Forse pure tu conoscerai qualche particolare della vita di Pino, detto Tortellino a causa del suo pantagruelico appetito, però io ti farò luce sulla vera storia del mio amico. Amico? Più che amico: un’amicizia fraterna ci legava sin dall’infanzia; la sua giovinezza era filata via insieme alla mia senza grossi scossoni, almeno per quel che mi risulta. La nostra più grande differenza stava nel fatto che lui odiava il clima moralista , ipocrita e buonista di Cargi, a sua detta paese troppo soffocato dall’afa cattolica dei suoi abitanti. Io invece sono sempre stato un buon cristiano praticante senza che ciò interferisse nel nostro rapporto: io rispettavo lui e lui rispettava me, soprattutto perché non mi includeva nella categoria di persone sopra citate.
    Si era sposato due anni prima che mi sposassi io, ma qualche settimana prima del giorno delle mie nozze con Fiammetta, la moglie di Pino morì in un incidente stradale alle porte del paese: era incinta di tre mesi come ricorderai forse dalle cronache regionali e nazionali del tempo. Neppure io lo sapevo. Il povero Tortellino uscì distrutto da quel dramma e dopo aver mascherato con immenso sforzo il suo dolore, partecipò al nostro matrimonio, poi, conclusasi la cerimonia sparì nel nulla.
    Non ebbi sue notizie, come del resto l’intera nostra comunità (non aveva neppure parenti in vita), per circa sei mesi. All’improvviso eccolo riapparire di nuovo: era dimagrito almeno dieci chili e i suoi ispidi capelli neri erano ora brizzolati; la sua carnagione mi sembrava molto più olivastra di quanto ricordassi. Pareva un’altra persona. O forse, più semplicemente, era un’altra persona.
    Durante la sua assenza  gli avevo curato l’orto e badato la casa; mi ringraziò calorosamente per questo ma non mi volle dire cosa aveva combinato in quei sei mesi. E nessuno lo seppe mai, tanto che le congetture più assurde e fantasiose si alimentavano quotidianamente nella piazza di Cargi.
    Tortellino tornò alla sua vita di sempre nei campi, con la solita dedizione e sacrificio. Aveva cambiato solo l’abitudine serale del bar e della briscola tra amici: in effetti non usciva mai in paese se non una volta alla settimana per fare qualche spesa. Io lo invitavo spesso a cena a casa nostra, ma lui rifiutava sempre garbatamente. Si era chiuso in un mutismo cupo, da cui nulla pareva destarlo. Nessuno avrebbe riconosciuto in Pino il burbero ciarlone che era una volta. Visse così, in mesta solitudine per circa dieci anni.
   Ed eccoci al venticinque giugno. Aperta la porta mi vidi puntare contro il fucile a canne mozze di Tortellino: “Seguimi senza tante storie” mi disse in tono minaccioso. Ovviamente eseguii i suoi ordini nonostante la sorpresa e l’angoscia mi paralizzassero. In assoluto silenzio mi condusse nella sua stalla e qui mi legò le mani ad un vecchio giogo appeso al muro, poi con voce cordiale, quasi addolcita d’incanto, mi disse: “Non ti preoccupare caro Berto, non ti accadrà nulla. Ora assisterai al processo, allo spettacolo della morte che entra in scena per recitare atti di giustizia.”
    Davanti a me si ergeva una specie di rozzo teatrino, costruito probabilmente in poche ore da Pino non molto tempo prima, dato che il giorno antecedente, passando accanto alla stalla non avevo notato nulla.
    Si aprì il sipario (un lungo lenzuolo rosso appeso ad una trave) ed io sgranai gli occhi: cinque ragazzi erano legati ed imbavagliati su altrettante sedie sistemate sopra un tappeto di nylon. Impiegai diversi secondi per capire che erano cinque giovani del paese, tutti figli o parenti di persone che conosco (e credo pure tu) molto bene, gente di chiesa che incontravo tutte le domeniche nella Casa del Signore e con la quale mi intrattenevo spesso a chiacchierare di cose più o meno futili. Come sai bene quei ragazzi erano: Giacomo Lenzi, di ventinove anni, figlio del diacono Giovannino Lenzi; Guido Fabbri, di venticinque anni, figlio del sacrestano Paolo Fabbri; Samuele e Primo Tassi, di venticinque e ventisette anni, nipoti di don Gino Tassi; Roberto Zaccarini, di ventisette anni, figlio della perpetua Ilenia Boselli.
    “Ti prego Pino, non fare pazzie! Cosa vuoi fare a questi ragazzi?” lo implorai.
    “Prima di eseguire la condanna, voglio raccontarti una storia…”
   Mi fece così luce sul suo dramma e sulla “latitanza” iniziata dopo la morte della moglie. La notte dell’incidente, un amico di quegli stessi cinque ragazzi (ricordi Marco Cappato, il figlio del gommista?) che vedevo ora terrorizzati davanti a me, si era recato da Pino e gli aveva rivelato che i suoi amici avevano scagliato una grossa pietra giù dal ponte di San Rocco, sito poco fuori Cargi, e avevano centrato in pieno il parabrezza dell’auto su cui viaggiava la consorte del Pulga. La donna, che andava a forte velocità, si schiantò contro il muro di recinzione di una villetta disintegrando completamente la vettura. Siccome la pietra non venne rinvenuta e nessun testimone aveva assistito al sinistro, i carabinieri archiviarono la pratica e Maria Cappellari in Pulga risultò deceduta per incidente automobilistico causato da un presunto colpo di sonno e dall’alta velocità.
    Marco raccontò a Tortellino di aver cercato di impedire il folle gesto ma una volta centrato il bersaglio era stato seriamente minacciato di non aprire bocca sull’accaduto. Disse anche che dopo la disgrazia i cinque giovani se ne erano andati felici e chiassosi a festeggiare l’impresa in un pub non lontano. Il Cappato se ne era tornato a casa sconvolto e alcune ore dopo sarebbe andato a far visita allo straziato Pino, il quale lo pregò di non rivelare a nessun altro ciò che gli aveva appena confidato: nella sua mente e nel suo cuore in quel momento si era spezzato qualcosa. Ricevute le dovute garanzie, Tortellino attese impazientemente il giorno del mio matrimonio, dopodiché fece i bagagli e partì, così, senza meta per le strade italiane. Covando la sua vendetta si stabilì per un mese ad Ortona, in casa di un amico di vecchia data con il quale aveva fatto il militare anni addietro; si trasferì poi a Gaeta, non so bene per quale motivo, ma qui - i casi della vita! - vinse tre miliardi al Totocalcio. Questo fatto lo portò inevitabilmente a rivalutare alcuni aspetti della sua vita futura. Decise così di starsene lontano da casa ancora qualche mese; in tal modo il suo piano avrebbe avuto il tempo di essere meticolosamente perfezionato. Andò in Francia, a Marsiglia, dove stette per altri due mesi ospitato da parenti della defunta moglie, poi via di nuovo, questa volta destinazione Messico. Quando rientrò a Cargi, il suo diabolico disegno era perfettamente delineato nella sua mente di uomo provato.
    Dieci anni ci vollero prima che mettesse in atto il suo progetto; non aveva fretta, lasciava che la vendetta covasse sotto la cenere del suo cuore bruciato. Alcuni anni prima aveva tentato di mettere in pratica la ferale serie di alchimie cerebrali propedeutiche alla riuscita del suo scopo, però non si erano verificate le condizioni favorevoli. Poi, eccoci al momento della resa dei conti: i cinque amici abboccarono tutti alla storia che Tortellino fece raccontare loro da Marco Cappato, precedentemente “ricompensato” con un centinaio di milioni della super vincita al Totocalcio.
    “Ragazzi, la casa di Tortellino è momentaneamente incustodita. Lui è lontano da casa per motivi di salute e… beh, si dice in giro che abbia oro e preziosi per miliardi  sparsi là dentro.” Così riferì Marco e tutti e cinque gli inseparabili compagni abboccarono all’amo del mortal destino.      Quando quella sera entrarono nella casa “incustodita” del mio amico, si ritrovarono come il giorno dopo mi trovai io, con il fucile puntato contro. Pino li costrinse a bere del sonnifero per non avere problemi nel legarli ed eccoli tutti lì in fila, svegli e impauriti come non mai.
    “Ma perché vuoi farmi vedere tutto questo Pino? Perché proprio a me?” E se tornassero mia moglie e i miei figli?” dissi io.
    “Tua moglie e i bambini non rincasano mai prima di mezzogiorno durante l’estate ed ora sono appena le dieci e quindici. Per quanto riguarda te amico mio, è proprio perché ti voglio bene se sto cercando di aprirti gli occhi.”
    “Che vuoi dire? E se decidessi di riferire tutto alla polizia? Tu… tu sei pazzo! Stai per commettere un crimine spaventoso!”
    Seguì una lunga pausa. Riprese: “No Berto, non racconterai niente a nessuno. Quando ti avrò liberato, tu sarai dalla mia parte. Sarai anche tu un uomo diverso.”
    Lo osservavo allibito. Sentivo la gola secca e stavo probabilmente cercando di fare un ultimo tentativo per farlo desistere dal suo intento quando pose fine alla discussione. Il verdetto ormai era stato emesso: “Chiunque creda nella giustizia terrena o celeste è solo un fesso. Questa è la nemesi storica che distrugge il frutto marcio di un albero putrescente. Questa è la vera giustizia.” Dichiarò questo, dopodiché infilò una specie di toga da giudice, afferrò un machete affilatissimo e diede inizio alla mattanza. Enunciato in tono solenne il nome, l’età e il grado di parentela che legava ogni singolo ragazzo al già citato padre, madre o zio, mozzò loro la testa uno ad uno, in una escalation adrenalinica di accecante delirio.
    Stranamente non provavo ribrezzo nel vedere tutto quell’orrore. Mi vennero in mente le parole pronunciate da Tortellino poco prima: “Quando ti avrò liberato, tu sarai dalla mia parte. Sarai anche tu un uomo diverso.” Stentavo a crederci; non potevo essere io, Gilberto Biagi, cristiano praticante, buon padre di famiglia e lavoratore indefesso quel mostro che quasi provava un senso di sollievo nell’assistere a quel massacro. Eppure…
    Pino avvolse i cadaveri nel nylon, li caricò sul suo furgoncino e dopo avermi liberato si scusò per come mi aveva trattato. Mentre mi parlava mi scrutava con sguardo ipnotico, al quale io non seppi reagire se non per dire con voce fievole “ci vediamo”. Andò a murare quei corpi e quelle teste tagliate nel cemento che avrebbe fatto da fondamenta alla villetta che stava costruendo a Pive, non lontano da Cargi.
    Rientrato in casa dalla stalla dell’amico quella mattina, fu solo allora che mi resi realmente conto di ciò che era accaduto. Quei ragazzi erano tutti figli o nipoti di gente religiosissima che come il sottoscritto aveva intravisto nella Chiesa e in Gesù nostro Signore la strada giusta per garantirsi la felicità terrena e l’eternità celeste, purtroppo però non avevano fatto i conti con la dannazione dei loro giovani, nonostante i loro rigidi e un po’ bigotti canoni educativi avrebbero voluto imporre ben altri insegnamenti. Quando rincasò mia moglie decisi di non dir nulla sull’accaduto: tra me e Tortellino, non so come e perché, in quella stalla si era creato un tacito accordo di collaborazione.
    Alcuni giorni dopo la scomparsa dei cinque giovani, le indagini della polizia (non riesco a spiegarmi come possano aver fatto!) si incanalarono proprio nella direzione di Pino, ma al processo durante la mia testimonianza lo scagionai affermando che la notte in cui erano spariti i ragazzi, egli era in casa sua in compagnia dello spirito della moglie e del frutto che portava in grembo. E devo aggiungere che durante le varie udienze, la disperazione di quei parenti distrutti dal dolore non ha mai minimamente impietosito il mio cuore.
    Il mistero della sparizione dei cinque giovani cargilesi è a tutt’oggi uno dei grandi casi insoluti della giustizia italiana; anche se – permettimi la considerazione – paradossalmente, non poteva esserci giustizia più equa di quella esercitata da Pino. Dopo tutto non ha fatto altro che liberare il mondo da cinque parassiti e l’estate prossima io e la mia ignara famiglia , andremo a trovarlo allo “Scalpo” di Acapulco, il ristorante sull’oceano che ha aperto da poco, dove potremo gustarci le specialità italiane e messicane tornando finalmente a sorridere sul futuro che ci attende.

                                                                                                                                        Cordiali saluti,
                                                                                                                                        Un ammiratore


RISPOSTA ALLA LETTERA DI GILBERTO BIAGI

Che Iddio ti benedica!!!

                                                                                                                                           

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