venerdì 23 marzo 2012

L'UNGHIA DI BEGONIA

Quattordici anni fa nasceva questo racconto, racconto che ha tutti i difetti del mondo ma non si può certo dire che non sia spontaneo e non rappresenti uno... spaccato di vita, in tutti i sensi. Il titolo (il nome della protagonista) è stato cambiato dopo la sentenza del foro di Bilbao del 14 maggio 2009.

L’UNGHIA DI BEGONIA



Benidorm doveva essere la meta di una vacanza da sballo, di quelle da rievocare negli anni come la madre di tutte le ferie, il nonplusultra del divertimento, un’avventura da raccontare agli amici per far loro invidia e farli pisciare addosso dalle risate non appena ne avessimo sviscerato gli aneddoti più gustosi e persino i più insignificanti. Beh… così non fu. Ci sorbimmo ventuno ore di pullman solo per il viaggio di andata, ma questo è niente, eravamo preparati; pensavamo che ne sarebbe valsa comunque la pena. Non appena giungemmo a destinazione però, venimmo accolti da una sorpresa niente affatto simpatica: il nostro appartamento – prenotato con le migliori garanzie da parte dell’agenzia viaggi – era un sordido tugurio al decimo piano di un fatiscente palazzo privo di ascensore, ubicato in uno squallidissimo quartiere a cinquecento metri da una lurida spiaggia ispanica.
    “No problem!” dissi io per ringalluzzire l’animo sfiancato dallo sbigottimento e dalla stanchezza dei miei compagni di ventura, “è ora di tirare fuori il nostro spirito di adattamento. Fottiamocene e divertiamoci”.
    Questo era quello che pensavano anche loro, ma un secco “vaffanculo” saettato dalla bocca di Isola mi convinse a tacere per un po’.
    Eravamo partiti in quattro: io, Isola, Tano e il Cipputo. Tornammo a casa in due, nel senso che Isola e il Cipputo infarcirono talmente tanto i loro corpi con alcol e droghe che quando rientrammo in Italia, impiegarono due settimane per snebbiare la mente e riassumere una sia pur minima parvenza umana. Per quanto riguarda Tano, non fu di grande compagnia; infatti due giorni dopo il nostro arrivo in Spagna conobbe un ricco pederasta francese e passò quelle due settimane sullo yacht di Pierre Cocteau (detto il Marchese) tra effeminati giovincelli e glabri nonché nerboruti ragazzi in cerca di amore omo. Io trascorsi la prima settimana nell’allegra combriccola del Cipputo e di Isola, mentre i rimanenti giorni fluirono in uno stato di ascesi dove mi ritrovai a contemplare quella sconvolgente prima settimana. Se mai nella vita di un uomo si può parlare di punto di svolta drastico, io svoltai drasticamente proprio allora.
    Maria Giovanna, coca, hascisc, ecstasy, lsd, e chi più ne ha più ne metta; ci stavamo talmente appassionando al culto della droga che non uscivamo quasi più di casa. Eravamo curiosi di provare ogni tipo si sensazione addotta dalle sostanze stupefacenti. Per sei giorni non vedemmo né mare né sole, vivevamo di notte tra discoteche, rave party e locali di tendenza: qui mettevamo in pratica gli esiti e gli effetti del nostro hobby quotidiano. Fu proprio una di quelle sere che conobbi, al famoso Eku’s di Benidorm, Begonia, giovin pulzella di origine basca dalle forme sinuose e dal tenero visetto.
    Come ero fatto quella sera non lo sono mai stato, né mai lo sarò più – ne sono certo – in vita mia; ad ogni modo, non ricordo come, feci colpo sulla spagnoletta e la invitai al bancone del bar a bere qualcosa. Dopodiché seguii il classico rituale del giovane arrapato bramoso di sorcetta umida: piantai la lingua in bocca a Begonia e la invitai nel nostro appartamento. Non ci fu problema: già pregustava – come me d’altronde – le gioie del sesso, così prendemmo un taxi e via, destinazione Avenida de Mierda, vicino a Plaza de Schifo. Quando arrivammo su al decimo piano, la ragazza mi sembrava in splendida forma e ancor più bella di quando l’avevo conosciuta un paio di ore prima. Tutti quei piani saliti a piedi però mi accompagnarono boccheggiante alla meta e per riprendermi andai in bagno a tirare un po’ di coca della scorta personale di Isola. Ne uscii come nuovo e zompai letteralmente addosso alla chiquita. Ci spogliammo l’un l’altra e quando fummo nudi e crudi le infilai la mia bella nerchia pulsante su per quel soffice orifizio peloso che era la sua figa; ebbe un fremito di piacere accompagnato da un lungo sospiro, purtroppo però ero talmente eccitato che me ne venni quasi subito, lasciandola inappagata.
    “Excusame mucho” esclamai, “vado un momentito in bagno, e quando torno te inforco fino a romperte la fregna. Comprende?”
    Questa mi faceva di sì con la testa ma di sicuro non aveva capito nada. Comunque, vado in bagno a riassestarmi: cinquanta mila di benzina por favor… snifff… snifff e vamos; torno in camera e cosa vedo? Begonia a gambe aperte che si stava sparando un ditalino e gemeva, oh come gemeva quella troietta lussuriosa! Dissi: “Che Iddio abbia pietà di te!”. Era giunto il mio momento, Gigi era tornato in splendida forma, mi sentivo un leone pronto ad avventarsi sulla preda inerme. Dopo un po’ di preliminari penetrai la purchiacchella per il secondo giro e, beh, questa volta… tuoni e fulmini: la montai inizialmente nella posizione classica del missionario, poi la misi a pecora, infine fu lei a posizionarmisi sopra e qui venne tra spasmi violenti e grida da bovara. Io ne avevo ancora così decisi di metterglielo nel culo; a lei non dispiacque e un altro forte orgasmo la travolse. La mandai più volte in estasi poi anch’io me ne venni tra le sue belle chiappe sode. Quando chiusi gli occhi per rilassarmi pensai di avere appena terminato la più formidabile chiavata della mia vita.

***

Alle nove di mattina io e Begonia venimmo svegliati da Isola e dal Cipputo che rincasavano provenienti dal loro paese dei balocchi.
    Dopo averla un po’ palpata Isola svegliò la ragazza che, imbarazzatissima, si rivestì senza aprire bocca; la salutai dandole appuntamento per quella sera stessa sempre all’Eku’s poi la congedai con un bacio. Vedevo tutto annebbiato e tornai immediatamente a letto, constatando che i Fratelli Tossici, come li avevo soprannominati io, erano già belli stesi. Dormivamo in un'unica stanzetta: io nel letto matrimoniale con il Cipputo mentre Isola aveva occupato il piano inferiore del letto a castello, il cui coinquilino doveva essere Tano. Ma chissà che letti frequentava lui la notte.
    Verso le cinque del pomeriggio mi svegliai con l’odore del caffè che stava preparando Isola. Il Cipputo fumava una canna sul terrazzo e quando mi vide mi offrì un giro ma rifiutai perché avevo la testa che mi scoppiava. Bevvi il caffè mentre osservavo los amigos che con perseveranza  davano inizio all’ennesimo drug party. Oltre alla testa mi doleva anche lo stomaco, per cui mi ridistesi nuovamente sul letto dopo aver ingoiato un paio d’aspirine.
    A mezzanotte e trenta circa, il Cipputo e Isola mi svegliarono: era ora di andare alla “carica”. Io non stavo benissimo ma mi ero almeno ripreso dal mal di testa e di stomaco; fu così che me ne uscii per la prima volta dall’inizio di queste vacanze lucido e sobrio. Rifiutai pure un pastiglino di non so cosa che mi passò Isola dicendo: “Grazie ragazzi, ma oggi time out. Penso che rientrerò domani nella Toxic Company.”
    Quando arrivammo all’ Eku’s, i miei amici partirono in quarta alla ricerca di “carne” fresca da mettere sulla graticola della loro ardente euforia sessuale, mentre io, leggermente sofferente e un tantino abbacchiato mi sedetti su un divanetto sorseggiando un’aranciata amara. Ero lì che osservavo Isola darci di lingua con una quarantenne svedese quando mi resi conto di non ricordare assolutamente il volto di Begonia; nonostante mi sforzassi non riuscivo a focalizzare la sua fisionomia. Un fatto mi distolse da questi pensieri: una tipa grassoccia, butterata, con dei capelli unti e una pelle lucida da fare schifo si mise a sedere al mio fianco.
    “Hola! Como estas?” mi dice.
    “Bien!” rispondo io distrattamente.
    Passano pochi attimi e connetto tutto: è Begonia. Come ho potuto portarmi a letto un cesso di figa come quello? Quanta merda ho ingerito e inalato per intravedere anche solo un leggero barlume di fascino o bellezza in quell’aborto d’una putrida fregna? Deglutii saliva più volte, inorridendo palesemente al primo tentativo che fece di baciarmi; scansai quelle labbra grottesche con agilità, poi in uno spagnolo stentato cercai di spiegarle che non stavo bene e che avevo intenzione di tornare subito all’appartamento. Lei sembrò rattristarsi a questa notizia ma… fanculo!, io me la diedi a gambe. Senza neppure avvertire Isola e il Cipputo, corsi a prendere un taxi.
    Ero in casa da un’ora, sul terrazzo dell’appartamento a godermi la leggera brezza notturna e la splendente luna quando bussarono alla porta. Andai ad aprire un po’ infastidito per essere stato interrotto in quel piacevole momento contemplativo e chi mi trovai di fronte? Begonia. Aveva con sé un paio di bottiglie di vinello rosso di San Sebastian e un consistente pezzo di hascisc pakistano.     Essendo io una persona all’occorrenza abbastanza gentile e disponibile la feci accomodare; neanche il tempo di togliersi quell’orribile giacca kitsch che indossava che questa sgraziata creatura aveva già stappato la prima bottiglia. Non avevo nessuna intenzione di bere, ma quando mi resi conto che era l’unico modo per affrontare una situazione del genere, mi scolai  tutto il vino che aveva portato  nel giro di un’oretta. Finito che ebbi l’ultimo bicchiere, Begonia cominciò a gingillarsi con il mio Gigi e da quel momento non vidi più Begonia, non c’era più nessun barilotto nauseabondo davanti a me; c’era solo un buco nero, una foresta magica e rigogliosa, una Medusa che cercava di ipnotizzarmi il cervello e pietrificarmi l’uccello: ci riusciva benissimo.

***

Alle sette della mattina mi svegliai. Begonia era lì al mio fianco e ora, alla luce del giorno e con il cervello terso e connesso, risaltava in tutta la sua bruttezza. La osservai attentamente e… la annusai attentamente: come cazzo fa una persona appartenente alla specie umana a puzzare così tanto?! E soprattutto, come può uno come me scoparsi una cosa del genere? Provai un certo malessere mentre passavo lo sguardo sui suoi capelli, poi sui fianchi pienotti, sul sedere grassoccio, le cosce, i piedi… aaaaaah, mamma mia! Questa non aveva dei piedi, aveva un paio di zampe in necrosi purulento-degenerativa, due cimiteri profanati dal Dio Putrido. Sgranai gli occhi non riuscendo a credere a ciò che avevo davanti: nel piede destro, su cinque unghie, tre erano nere di sporcizia, una era avvolta da un cerotto e un’altra ancora era nera probabilmente perché schiacciata. Idem per il piede sinistro, con l’unica differenza che aveva un dito, l’alluce, ancora vergine e incontaminato. E che tanfo! Andai in bagno e vomitai.
    Sciacquandomi la faccia sotto il getto ghiacciato del rubinetto, pensai che se i miei amici (il Cipputo e Isola in stato di sobrietà per intenderci) si rendessero conto chi, anzi cosa mi sono chiavato, verrei sfottuto per il resto dei miei giorni.
    Influenzato da quest’ultima gaia possibilità, mentre Begonia ancora dormiva mi baluginò in testa un’idea che colsi nella sua estemporaneità; presi la Canon che ancora non avevo tirato fuori dalla valigia e cominciai a fotografarla, immortalando più che altro quei due piedi che se non se li curava, un giorno quella povera ragazza si sarebbe ritrovata con dei moncherini o con protesi artificiali. Con l’autoscatto mi fotografai nelle posizioni più idiote: annusandole (fingendo!!!) i piedi, il culo, le ascelle… Sì lo so che ero un demente delirante in questa valle di lacrime, il problema era che non me ne rendevo conto e non mi dispiaceva affatto esserlo.
    Quando verso le otto e trenta tornò a casa Isola con la sua svedesona (il Cipputo , come ho appurato in seguito, era a farsi sbocchinare da una minorenne olandese), venni come assalito da un raptus di follia isterica; svegliai Begonia a calci nel culo e la trascinai fuori dalla porta nuda, tirandole dietro i vestiti.
    “Hijo de puta!” mi grida lei incazzata.
    “Vai via balenottera di merda, e non farti più vedere!” replico io mentre ero già sotto la doccia a scrollarmi di dosso quell’alone di apocalisse, quella sensazione di aver contratto la peste bubbonica che mi aveva lasciato quella passera mefitica.
    Lì, con l’acqua gelida che scorreva su tutto il corpo e che mi arrecava un piacere quasi orgiastico, sentii un grido proveniente dalla camera da letto. In procinto di essere cavalcato dalla Ingrid, Isola si era conficcato l’unghia dell’alluce marcio di Begonia nella chiappa sinistra. Mi precipitai in suo soccorso e gli estrassi accuratamente l’arma letale dal sedere poi, quando stava ancora imprecando, gli consigliai di andarsi a disinfettare se non voleva beccarsi il tetano o una qualche forma sconosciuta di virus. Aiutato da Ingrid, l’amico andò a detergersi la ferita in bagno dove poco dopo proseguì l’amplesso sulla tazza del cesso.
    In cucina stavo analizzando quell’unghia quando… visione celeste, crisi dell’Io… non so bene cosa mi accadde ma decisi che quel pezzetto disgustoso del piede di Begonia sarebbe diventato un cimelio, un amuleto da conservare, da adorare; un antisfiga, un portafortuna, insomma… la mia unghia custode. Dopo tutto mi aveva insegnato una bella lezione, anzi più di una, che misi in pratica a partire da quel giorno stesso: primo, basta con le droghe almeno quelle pesanti e in quantità smisurata; secondo, avevo fatto beneficenza a una ragazza inguardabile e potevo essere felice di aver fatto del bene, ma da allora in poi… solo offerte in denaro; terzo, ho imparato che alla disgregazione cerebrale e morale (la mia) e materiale (quella di Begonia) non ci sono limiti percepibili dai diretti interessati quando si entra nella spirale che porta verso il fondo; infine – ma questo l’ho imparato molto tempo dopo – io vedevo in Begonia una diseredata, un relitto ambulante, giovane ragazza che giocava la disperata partita contro la solitudine così come qualunque altra persona in grado di decodificare i miei comportamenti e la mia personalità corrosa e corrotta dalla precarietà esistenziale della vita stessa avrebbe visto che non valevo né più né meno quello che valeva lei. C’era solo una differenza rilevante, e cioè che probabilmente Begonia non aveva e non avrebbe mai avuto la possibilità di condurre il gioco (sia bene inteso che non dico questo riferendomi al suo aspetto esteriore, valuto bensì alcuni aspetti che mi suggeriscono che la spagnola era una persona scialba), mentre io la capacità di comandare il mio destino l’avevo avuta. Ma ho perso la partita.

***

A distanza di parecchi anni da quella vacanza in Costa Blanca, non ricordo quasi più nulla di quei giorni. Gettai via persino il rullino con le foto di Begonia prima ancora di tornare a casa e mai, mai ho riso di quelle avventure.
    Tano si è stabilito in Thailandia a vivere nell’harem del Marchese e non ho più contatti con lui da almeno tre anni. Il Cipputo fa continuamente la spola fra il carcere ed una comunità per il recupero di tossici. Isola, beh lui è morto alcuni mesi dopo il rientro da Benidorm: sua madre lo trovò nel bagno con la siringa ancora penzolante dal braccio. La maledizione di Begonia non era stata esorcizzata con il disinfettante e non lo aveva perdonato.
    Allora si voleva partire per spaccare il mondo; ci siamo spaccati noi stessi, trascinati nel vortice del nulla, nel vuoto che avevamo dentro e che non riuscivamo a colmare se non con “stupefacenti” giochi di prestigio. Come finì quella vacanza? Che importa come finì. Basti sapere che quando il proprietario dell’appartamento ci presentò il conto, noi lo saldammo senza sapere quanto alto era stato in realtà il prezzo pagato alla nostra voglia di evasione.
    Quando ancora oggi osservo l’unghia di Begonia, che porto sempre al collo gelosamente custodita all’interno di un ciondolo di cristallo appeso ad una catenina d’oro, mi affiora alla mente il ricordo dei miei amici e i fantasmi della nostra giovinezza si materializzano a inquietarmi l’anima.
    “Che cos’è quella schifezza che hai al collo?” mi chiedono spesso.
    “E’ l’unghia di una Dea crudele” rispondo io, “che venne uccisa dall’ancor più crudele ferocia di un essere umano, il quale però si dovette portare appresso la sua maledizione per tutta la vita. Chi possiede quest’unghia può considerarsi – a contrario di quello che si è indotti a pensare udendo ciò che ho appena detto – molto fortunato. Posso affermare che è vero.”
    E’ vero sì, altrimenti non sarei qui a scriverlo.

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