Spesso un racconto mi viene ispirato da piccoli o grandi fatti quotidiani, a volte da una semplice frase o un gesto. Eccone un esempio in questa storiella datata 2000.
CATARSI
Un fatto accadutomi questa sera mi ha ridato ispirazione e
voglia di scrivere; era da un po’ di tempo che non trovavo stimoli o spunti
interessanti per la stesura di un racconto, anche se l’episodio a cui ho
assistito mi ha riempito il cuore di quella tristezza che arreca notare quanta
ignoranza e intolleranza regna anche nei piccoli paesi del Nordest. La tragedia
che metterò ora in scena è frutto della mia fantasia… ma non più di tanto.
Marco abitava a Casadelsiore,
paese in provincia di Antasede. Viveva con i genitori e lavorava come cuoco al
ristorante “Le grillon muet” di Bagghettone, frazione di Casadelsiore. Tutti lo
consideravano un buon cuoco anche se qualche critico un tantino esigente lo
tacciava di scarso eclettismo nell’inventare nuovi piatti e ricette,
osservazione peraltro giusta considerando il limitato numero di portate che non
gli permettevano di essere assurto al grado di Grande Cuoco. Lui, conscio dei
suoi limiti, la pensava così: “Se gli ingredienti che ho a disposizione mi ispirassero
periodicamente nuove e succulenti pietanze ne sarei felicissimo. Visto che così
non è, mi accontento di fare bene quel po’ che so fare, senza arrischiarmi in
esperimenti presuntuosi”. Come si denota era un tipo a cui non piaceva
l’azzardo, inoltre si considerava molto pragmatico e non amava assolutamente
esporsi ai giudizi della gente. Aveva ovviamente le sue idee, ma cercava per
quanto possibile di tenerle per sé, non per timore delle famose invettive
casesi (peculiarità degli abitanti di Casadelsiore con le quali si mirava a
stroncare ogni pensiero o idea non “uniforme”), bensì per una mera questione di
quieto vivere. Nel tempo libero Marco prestava servizio di volontariato al
C.I.I. (Centro Integrazione Immigrati) e la sera del lunedì – giorno di
chiusura del “grillon” – soleva trascorrere un paio di orette in compagnia a
fare quattro chiacchiere e a giocare a carte con gli amici biscazzieri.
Frequentava il Bar Delcasso, nel centro di Casadelsiore. Il Bar Delcasso, di
Italo Delcasso, era ed è tuttora un esercizio di terz’ordine frequentato da
vecchi rimbambiti stile Alienata con monomania dell’invidia di Theodore
Gericault, da gente cattolica e un po’ bigotta sulla cinquantina e dai figli di
questi ultimi esemplari, sempre più numerosi, di esseri umani. Marco non aveva
nulla da spartire con queste persone ma visto che Il Bar Delcasso era l’unico
luogo, per così dire, di svago del paese, col tempo aveva fatto l’abitudine
all’afrore che emanavano i tanti clienti farisei: aveva smesso da molto di sentirsi
un pesce fuor d’acqua; gli piaceva immaginarsi, in quelle serate al bar, come
un anfibio nello stagno.
Aveva ventitre
anni compiuti da una settimana quella sera di dicembre in cui varcò per
l’ultima volta la soglia del Bar Delcasso. Per una beffarda coincidenza con il
destino, una caustica mano anonima aveva scritto con lo spray “LASCIATE OGNI
SPERANZA VOI CHE ENTRATE” sopra la porta d’ingresso quella stessa sera; Marco
si trovava lì, nell’inferno dei moralisti, nel girone degli stolti. Al tavolo accanto
a quello dove stava giocando a briscola con l’amico Enrico, sedevano quattro
ragazzini dai sedici ai diciotto anni. Ad un certo punto entrò nel bar un
tranquilla famigliola di extracomunitari di probabile etnia curda: marito,
moglie ed un bambino sui quattro anni tenuto in braccio da quello che poteva
essere il fratello maggiore, un robusto ragazzone di circa vent’anni.
Senza motivo
alcuno tutti e quattro i ragazzi seduti vicino a Marco, che lo stesso conosceva
per essere i figli di assidui frequentatori di clericali ambienti casesi,
iniziarono a ingiuriare i quattro componenti della famiglia musulmana
innescando una reazione che coinvolse quattro anziani assonnati persi nella
visione di una gara di scacchi alla tv e altri due ragazzi maggiorenni in una
spirale di odio crescente contro i malcapitati. “Andate via pezzenti!”;
“Tornate a casa vostra tunisini di merda!”; “State inquinando l’aria, fuori dai
ciglioni!”. Echeggiò nell’etere anche un “la vostra terra è il Marocco,
tornateci Marocchesi!” detto da un distinto signore in giacca e cravatta.
Esposti a
questa sorta di pubblico ludibrio condito da risa e scherni, i quattro si
avviarono mestamente all’uscita. Marco nel frattempo aveva osservato lo
svolgersi della scena in uno stato di paralisi, incredulo, annientato e pieno
di vergogna per essere un uomo, un cristiano, occidentale benestante sulla
barca dei presunti “paladini del rispetto e detentori della verità”.
Quando poco
prima di uscire definitivamente dalla porta principale del locale, uno dei
quattro ragazzini diede un violento spintone alla donna facendola carambolare
prima sul tavolo di Marco e Enrico e poi per terra, si accese una furibonda
rissa tra il marito della donna, il suo probabile figlio maggiore e i quattro
adolescenti. A quel punto, mentre gli attempati signori avevano lasciato
perdere la partita di scacchi televisiva e ora, ridestati dalla sonnolenza si
erano aggiunti agli altri frequentatori del bar nell’incitare i ragazzi
indigeni, Enrico e Marco intervennero per sedare la rissa. Il primo aiutò la
donna a rialzarsi e mise al riparo il bambino; Marco tentò invece di fare da
paciere, ma proprio quel tentativo fece calare il sipario sulla sua esistenza.
Nel parapiglia generale sbucò un coltello dalla tasca di uno dei giovani
italiani e nella concitazione della lotta la lama andò a perforare
involontariamente l’addome di Marco. Subito la rissa si interruppe. Il panico
prese il sopravvento e in pochi secondi il bar si vuotò. Rimasero Italo il
barista, che fino a quel momento si era esclusivamente preoccupato di
proteggere bottiglie e suppellettili, i quattro membri della famiglia
straniera, Enrico e Marco, il quale tra le braccia dell’amico sentiva la vita
scivolare via, derubata dalla stupidità di un “popolo senza cultura”, inneggiante
pace , amore e tolleranza solo nella speciosità delle parole.
Morì dunque il
povero Marco. La sera dell’undici dicembre dell’anno giubilare Duemila lasciò
l’inferno dei dannati. Prima di spegnersi trovò la forza per dettare ad Enrico
alcuni versi che avrebbe voluto sulla lapide della sua tomba; sorrise al
bambino figlio degli extracomunitari poi si spense, e insieme a lui si spense
la speranza, la fiducia nel futuro.
Ebbe un epilogo
assai triste anche la vicenda giudiziaria che seguì la sua morte. Siccome
Enrico non era stato testimone dell’accoltellamento (in quel momento aveva
accompagnato fuori dal bar il piccolo e la madre), venne incolpato il ragazzone
forestiero e nessuna delle dieci e passa testimonianze dei presenti
sull’accaduto ebbe l’onestà di non proferir menzogne per scagionare il vero
innocente. Al processo, Enrico fece il possibile per aiutare Kalid – così si
chiamava – asserendo che era stata tutta colpa dei ragazzi casesi, che erano
stati loro a provocare, insultando la tranquilla famigliola islamica, ma né Dio
né Allah evitarono trent’anni di galera a Kalid.
Nel vortice di menzogne che seguirono
l’evento, solo poche parole assunsero un significato di verità assoluta: le
parole dell’epitaffio voluto da Marco sulla propria tomba, le parole di un
ragazzo geloso della tranquillità del suo quieto vivere che aveva sempre
cercato di tenere per sé le sue idee per non ferire le persone che la pensavano
diversamente. Quelle parole esplosero, rimbombando nell’immobilità perbenista e
nell’atavica sonnolenza della ragione di Casadelsiore per lasciare il segno:
Siano maledetti gli Dei, tutti, e i loro simboli in terra
Cagione principe delle umane disuguaglianze
Siano maledetti
gli uomini, sfruttatori degli Dei
Inventori di razze
e confini, artefici di intolleranza
Assassini di
intelligenza
Uomo, lascia ogni
speranza tu che nasci nel mondo dell’odio.
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