mercoledì 18 gennaio 2012

CATARSI

Spesso un racconto mi  viene ispirato da piccoli o grandi fatti quotidiani, a volte da una semplice frase o un gesto. Eccone un esempio in questa storiella datata 2000.

CATARSI

Un fatto accadutomi questa sera mi ha ridato ispirazione e voglia di scrivere; era da un po’ di tempo che non trovavo stimoli o spunti interessanti per la stesura di un racconto, anche se l’episodio a cui ho assistito mi ha riempito il cuore di quella tristezza che arreca notare quanta ignoranza e intolleranza regna anche nei piccoli paesi del Nordest. La tragedia che metterò ora in scena è frutto della mia fantasia… ma non più di tanto.


Marco abitava a Casadelsiore, paese in provincia di Antasede. Viveva con i genitori e lavorava come cuoco al ristorante “Le grillon muet” di Bagghettone, frazione di Casadelsiore. Tutti lo consideravano un buon cuoco anche se qualche critico un tantino esigente lo tacciava di scarso eclettismo nell’inventare nuovi piatti e ricette, osservazione peraltro giusta considerando il limitato numero di portate che non gli permettevano di essere assurto al grado di Grande Cuoco. Lui, conscio dei suoi limiti, la pensava così: “Se gli ingredienti che ho a disposizione mi ispirassero periodicamente nuove e succulenti pietanze ne sarei felicissimo. Visto che così non è, mi accontento di fare bene quel po’ che so fare, senza arrischiarmi in esperimenti presuntuosi”. Come si denota era un tipo a cui non piaceva l’azzardo, inoltre si considerava molto pragmatico e non amava assolutamente esporsi ai giudizi della gente. Aveva ovviamente le sue idee, ma cercava per quanto possibile di tenerle per sé, non per timore delle famose invettive casesi (peculiarità degli abitanti di Casadelsiore con le quali si mirava a stroncare ogni pensiero o idea non “uniforme”), bensì per una mera questione di quieto vivere. Nel tempo libero Marco prestava servizio di volontariato al C.I.I. (Centro Integrazione Immigrati) e la sera del lunedì – giorno di chiusura del “grillon” – soleva trascorrere un paio di orette in compagnia a fare quattro chiacchiere e a giocare a carte con gli amici biscazzieri. Frequentava il Bar Delcasso, nel centro di Casadelsiore. Il Bar Delcasso, di Italo Delcasso, era ed è tuttora un esercizio di terz’ordine frequentato da vecchi rimbambiti stile Alienata con monomania dell’invidia di Theodore Gericault, da gente cattolica e un po’ bigotta sulla cinquantina e dai figli di questi ultimi esemplari, sempre più numerosi, di esseri umani. Marco non aveva nulla da spartire con queste persone ma visto che Il Bar Delcasso era l’unico luogo, per così dire, di svago del paese, col tempo aveva fatto l’abitudine all’afrore che emanavano i tanti clienti farisei: aveva smesso da molto di sentirsi un pesce fuor d’acqua; gli piaceva immaginarsi, in quelle serate al bar, come un anfibio nello stagno.
    Aveva ventitre anni compiuti da una settimana quella sera di dicembre in cui varcò per l’ultima volta la soglia del Bar Delcasso. Per una beffarda coincidenza con il destino, una caustica mano anonima aveva scritto con lo spray “LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CHE ENTRATE” sopra la porta d’ingresso quella stessa sera; Marco si trovava lì, nell’inferno dei moralisti, nel girone degli stolti. Al tavolo accanto a quello dove stava giocando a briscola con l’amico Enrico, sedevano quattro ragazzini dai sedici ai diciotto anni. Ad un certo punto entrò nel bar un tranquilla famigliola di extracomunitari di probabile etnia curda: marito, moglie ed un bambino sui quattro anni tenuto in braccio da quello che poteva essere il fratello maggiore, un robusto ragazzone di circa vent’anni.
    Senza motivo alcuno tutti e quattro i ragazzi seduti vicino a Marco, che lo stesso conosceva per essere i figli di assidui frequentatori di clericali ambienti casesi, iniziarono a ingiuriare i quattro componenti della famiglia musulmana innescando una reazione che coinvolse quattro anziani assonnati persi nella visione di una gara di scacchi alla tv e altri due ragazzi maggiorenni in una spirale di odio crescente contro i malcapitati. “Andate via pezzenti!”; “Tornate a casa vostra tunisini di merda!”; “State inquinando l’aria, fuori dai ciglioni!”. Echeggiò nell’etere anche un “la vostra terra è il Marocco, tornateci Marocchesi!” detto da un distinto signore in giacca e cravatta.
    Esposti a questa sorta di pubblico ludibrio condito da risa e scherni, i quattro si avviarono mestamente all’uscita. Marco nel frattempo aveva osservato lo svolgersi della scena in uno stato di paralisi, incredulo, annientato e pieno di vergogna per essere un uomo, un cristiano, occidentale benestante sulla barca dei presunti “paladini del rispetto e detentori della verità”.
    Quando poco prima di uscire definitivamente dalla porta principale del locale, uno dei quattro ragazzini diede un violento spintone alla donna facendola carambolare prima sul tavolo di Marco e Enrico e poi per terra, si accese una furibonda rissa tra il marito della donna, il suo probabile figlio maggiore e i quattro adolescenti. A quel punto, mentre gli attempati signori avevano lasciato perdere la partita di scacchi televisiva e ora, ridestati dalla sonnolenza si erano aggiunti agli altri frequentatori del bar nell’incitare i ragazzi indigeni, Enrico e Marco intervennero per sedare la rissa. Il primo aiutò la donna a rialzarsi e mise al riparo il bambino; Marco tentò invece di fare da paciere, ma proprio quel tentativo fece calare il sipario sulla sua esistenza. Nel parapiglia generale sbucò un coltello dalla tasca di uno dei giovani italiani e nella concitazione della lotta la lama andò a perforare involontariamente l’addome di Marco. Subito la rissa si interruppe. Il panico prese il sopravvento e in pochi secondi il bar si vuotò. Rimasero Italo il barista, che fino a quel momento si era esclusivamente preoccupato di proteggere bottiglie e suppellettili, i quattro membri della famiglia straniera, Enrico e Marco, il quale tra le braccia dell’amico sentiva la vita scivolare via, derubata dalla stupidità di un “popolo senza cultura”, inneggiante pace , amore e tolleranza solo nella speciosità delle parole.
    Morì dunque il povero Marco. La sera dell’undici dicembre dell’anno giubilare Duemila lasciò l’inferno dei dannati. Prima di spegnersi trovò la forza per dettare ad Enrico alcuni versi che avrebbe voluto sulla lapide della sua tomba; sorrise al bambino figlio degli extracomunitari poi si spense, e insieme a lui si spense la speranza, la fiducia nel futuro.
    Ebbe un epilogo assai triste anche la vicenda giudiziaria che seguì la sua morte. Siccome Enrico non era stato testimone dell’accoltellamento (in quel momento aveva accompagnato fuori dal bar il piccolo e la madre), venne incolpato il ragazzone forestiero e nessuna delle dieci e passa testimonianze dei presenti sull’accaduto ebbe l’onestà di non proferir menzogne per scagionare il vero innocente. Al processo, Enrico fece il possibile per aiutare Kalid – così si chiamava – asserendo che era stata tutta colpa dei ragazzi casesi, che erano stati loro a provocare, insultando la tranquilla famigliola islamica, ma né Dio né Allah evitarono trent’anni di galera a Kalid.
    Nel vortice di menzogne che seguirono l’evento, solo poche parole assunsero un significato di verità assoluta: le parole dell’epitaffio voluto da Marco sulla propria tomba, le parole di un ragazzo geloso della tranquillità del suo quieto vivere che aveva sempre cercato di tenere per sé le sue idee per non ferire le persone che la pensavano diversamente. Quelle parole esplosero, rimbombando nell’immobilità perbenista e nell’atavica sonnolenza della ragione di Casadelsiore per lasciare il segno:

Siano maledetti gli Dei, tutti, e i loro simboli in terra

Cagione principe delle umane disuguaglianze

Siano maledetti gli uomini, sfruttatori degli Dei

Inventori di razze e confini, artefici di intolleranza

Assassini di intelligenza

Uomo, lascia ogni speranza tu che nasci nel mondo dell’odio.


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