giovedì 5 gennaio 2012

Tre storie d'amor perduto

I tre scritti che seguono sono uniti dal filo conduttore dell'amore, in particolare il tema trattato è la FINE di un amore. Roba vecchia che marca con ancor maggiore evidenza la distanza che intercorre oggi tra questi racconti e il loro autore...




CARA TOPINA

 Oggi pomeriggio, assalito d’improvviso da una folata di ciclica nostalgia, ho voluto riaprire la “scatola dei sogni”, lo scatolone dove ho riposto tutti i nostri ricordi. Sai, io ho tenuto tutto, senza buttare via niente; mica come te che dopo pochi giorni già ti eri disfatta di ogni cosa che rievocasse la mia esistenza. Me lo ha detto la Manu. Mi ha detto che hai gettato via ogni cosa, con rabbia, nel cassonetto dell’immondizia: è stata una mazzata, puoi immaginartelo. Comunque non potevo certo aspettarmi che custodissi tutte quelle cianfrusaglie da giovani innamorati, dopo tutto ti sei sposata e hai avuto una splendida bimba; per te il passato è sepolto sotto due metri di terra, mentre per me, che da allora non ho più amato una donna come ho amato te, è ancora uno sgradito compagno di viaggio. Ciò non vuol dire che ti amo ancora, anzi, ti odio e se rifletti è la stessa cosa.
    Ti invidio anche. Vorrei essere un artista come lo sei stata tu, capace di creare il più alto esempio di opera d’arte: un figlio. Invidio da morire pure la tua normalità piccolo borghese: la famiglia, il lavoro, gli orari da rispettare, la sicurezza economica, gli status symbol; mentre io sono destinato a vivere su un’isola… l’uomo isola… bel titolo per un romanzo, che ne dici?
    Ti dicevo dello scatolone. Mentre toglievo accuratamente il nastro adesivo che lo sigillava, il mio cuore ha preso ad andare all’impazzata. Non appena ho scorto le foto, le lettere che mi scrivesti (così ricche di candore e ingenuità), i pupazzetti, la catenina d’oro che mi regalasti a Natale, la fedina dell’“amore eterno”, non ce l’ho fatta e ho pianto, con quel senso di angoscia che prova un bambino che non trova più la sua mamma in mezzo a una gran folla. Dopo aver guardato tutte le foto e ripercorso le tappe della nostra storia insieme – il mare, la montagna, i compleanni, gli anniversari, ecc. – ho avuto un black out. Mi sono sdraiato per terra con il volto rivolto verso l’alto (ero in granaio, il nascondiglio segreto della “scatola dei sogni”), ho lasciato che le lacrime mi si asciugassero da sole e mi sono acceso una sigaretta. Sono stato in trance per dieci minuti, poi ho voluto rileggere le tue lettere d’amore e le brutte copie delle mie (mamma mia quante ne ho scritte!). Eravamo due ragazzini, è evidente, e io molto più di te ma la purezza e l’innocenza e la gioia e la tenerezza e la solennità e la forza dei sentimenti che trasparivano, oggi come allora, da quelle parole, non può essere rappresentato in  nessun capolavoro della letteratura mondiale, né ora né mai. Credimi. Di errori ne ho fatti per meritarmi il castigo di perderti, però sappi che insieme, tu ed io, abbiamo realizzato l’Idea Definitiva: l’Amore. Ma nessuno potrà mai apprezzarla o copiarla perché essa si è dissolta, è svanita con l’avvento della disillusione. Ed ora che tu, avvolta nella confortevole bambagia di “donna riuscita”, continui a fungermi da musa ispiratrice senza nemmeno sospettare che un uomo è morto per la pena che gli hai inflitto; ora che nonostante costui sia risorto dalle sue stesse ceneri per diventare un traduttore di sogni e speranze abbacinanti; ora che le parole, i pensieri e i fatti valgono meno di niente; ora che il mondo inizia la sua parabola discendente; ora che “se io” e ora che “se tu”, ora e per sempre, io dico: Vaffanculo! Richiudo la scatola. E questa volta dentro ci metto anche te.



UNA DOLCE STORIA D’AMORE

 “Ciao Ma!” dico sbattendomi la porta alle spalle.
    Mia madre mi saluta distrattamente: è al telefono con la sua cara amica Adele. Salendo le scale per andare nella mia camera da letto, la sento dire: “Hai sentito di Michele Pozzi? Lo hanno portato a San Patrignano. Quella povera donna di sua madre non meritava una simile disgrazia; per fortuna i miei figli hanno già passato l’età critica per cadere nel tunnel della droga. Sai Ade, non per modestia ma credo di averli cresciuti proprio bene i miei Stefano e Lucrezia…”
    Sdraiato sul letto penso che non è possibile avere una limitatezza di vedute come ha mamma: ho ventotto anni e lei pensa che sono al sicuro. Come ragiona? Cosa ne sa?
    Un riflesso condizionato – provocato dall’ignoranza pedagogica di mia madre – mi induce ad aprire un cassetto del comodino; un righino di cocaina è proprio quello che ci vuole. Telefono a Simona, la mia ragazza.
    “Ciao Simo, ti va di farti un giro in centro? Sì? Ocappa, tra mezz’ora passo a prenderti… sì… ciao.”
    Quando sto per uscire di casa, le due comari sono ancora al telefono. La mia vecchia si sta infervorando: “Hai visto il tiggì? Finalmente hanno arrestato quel pedofilo di Milano, quello che faceva quelle brutte cose con la nipotina e la figlia. Maledetti pervertiti, io li impiccherei tutti…”
    Non sono certo in disaccordo con le sue parole, ma se sapesse che ho sverginato io mia cugina Vittoria (di soli tredici anni) e mi sono fatto fare un pompino da zia Carmela mentre il suo amante (Rocco, un mio caro amico) le faceva il culo, chissà come ci rimarrebbe male ‘sta povera cristiana!?
    Salendo sullo scooter scuoto la testa con un sorriso a metà tra il beffardo e il perplesso. Quando arrivo a casa di Simona, lei mi sta aspettando giù in strada. La carico didietro.
    “Come sono contenta per tua sorella! Non vedo l’ora che si sposi e nasca il bambino. Beata lei! Quand’è che nascerà?” mi fa prima di partire.
    “Dovrebbe nascere i primi di dicembre” le rispondo, poi, sbalordito esclamo: “Beata lei!?”
    “Come dici Ste?”
    “No niente, niente.”
    Ci avviamo e mentre mi dirigo verso il centro città realizzo quanto insolite siano state quelle due parole pronunciate da Simo: beata lei. Cioè, voglio dire… beata lei ‘sto par di coglioni! Impregnata da quel buzzurro del suo maschio, terrone megalomane, e a un passo dalla sepoltura matrimoniale… beata lei? Non scherziamo. Per di più verranno a vivere qui in casa con me ed i miei, con quel segaiolo scassacazzo di mio padre tutto il giorno ubriaco e mia madre sempre dietro a brontolare; ci vedo proprio un bel quadretto familiare. Forse è meglio che mi trovi un lavoro fisso e me ne vada di casa. Oggigiorno lo spaccio di stupefacenti non garantisce più, qui a Bologna, l’agiatezza di un tempo; tutti ‘sti merdosi magrebini hanno monopolizzato il mercato e per i pesci piccoli come me non c’è più spazio.
    L’unica sicurezza che ho, per fortuna, è Simo, una persona adorabile: se non ci fosse lei sarebbero sicuramente cazzi acidi. L’ho conosciuta cinque anni fa, amica di un’amica di Rocco, ci siamo subito piaciuti. A quel tempo frequentavo ancora l’università, ma già stavo meditando di abbandonarla, dato che mi sembrava solo di perdere del tempo prezioso per il mio futuro; subito dopo averla lasciata infatti mi sono dato allo spaccio, un lavoro onesto, fonte di guadagno per chi non vede differenza tra un imprenditore e un operaio di infimo livello: trattasi pur sempre di dare e prendere, di calpestare ed essere calpestati, di vivere e morire. Ricordo ancora come se fosse ieri la prima uscita che facemmo insieme. Passammo un’intera notte a chiacchierare seduti sulla scalinata della chiesa di San Petronio. Rimasi folgorato dalla sensibilità, dall’arguzia e dalla sottile ironia che traspariva dalla sua solida personalità.
    “La spiritualità non è altro che atmosfera. Senza atmosfera non può esserci spiritualità; ma senza spiritualità può comunque esserci atmosfera. Lo spirito è un ologramma proiettato dall’atmosfera, ovvero dall’ambiente, il più delle volte positivo, che ci circonda” mi spiegò.
    Io non ci capivo un granché ma ero affascinato. Diceva: “Colei che sa, non ha bisogno di parlare”; oppure: “ Chi ha dato del tu alla morte non darà mai del lei alla vita”, e così via. Aveva ed ha tuttora un repertorio di massime vasto e interessante. Tante volte non capisco quello che dice, però rimango incantato ad ascoltarla lo stesso. Siamo molto diversi ma anche molto simili nel concepire la vita. “Carpe diem” è il motto che ci unisce. Lei è sicuramente più matura di me (anche se più giovane) e pure più acculturata; quella prima serata trascorsa insieme mi fece un sunto delle caratteristiche e differenze che distinguevano beatniks, dadaisti e lost generation. Mi raccontò dei suoi trascorsi di militante radicale e poi di anarchica; mi disse quanto amava leggere il suo conterraneo Sciascia e John Fante. Più parlava, più non capivo nulla, più mi innamoravo.
    Sono passati tanti mesi da allora e mi rendo conto di aver intrecciato un legame inscindibile con Simo. Non sa che spaccio droga; non sa nemmeno – ci mancherebbe! – che non appena mi capita di fare qualche scopata extra con altre ragazze non mi tiro indietro, anzi, lo considero un trascurabile vizietto che ha lo scopo terapeutico di rafforzare sempre di più una relazione a prova di bomba.
    Ma eccoci qui adesso, in giro per Bologna; prendiamo un paio di birre in bottiglia e ci sediamo, oggi come allora, sui gradini di San Petronio. Mi sento particolarmente romantico. Sarà forse l’atmosfera, come diceva lei, a mettermi in questa predisposizione d’animo? Non lo so, fatto sta che la abbraccio dolcemente.
    “Ti amo Simo!” dico.
    Lei non risponde. Forse si sta facendo cullare dal momento così tenero. Ripenso al “beata lei” esclamato poco prima sullo scooter e realizzo che non era un’ “uscita” da Simona: non si era mai mostrata incline al matrimonio, proprio come me. Quelle parole suggerivano un cambiamento di rotta nei programmi e negli ideali della mia ragazza. La stringo più forte. Lei mi guarda, mi sorride, poi mi bacia ma freddamente, le si inumidiscono gli occhi.
    “Ste, ti devo confessare una cosa.”
    Siamo così innamorati, penso, se mi dirà che mi vuole sposare le dirò di sì, dopo tutto è anche ora che mi sistemi, che metta la testa apposto.
    “Non so come dirtelo” prosegue un po’ imbarazzata.
    Le sorrido. La incoraggio con il pensiero: su, non è difficile. In fondo siamo giunti alla logica conclusione, al traguardo che in questi cinque anni ci ha resi una persona unica.
    “Sono stata con un altro!”
    What?
    “Con diverse persone!”
    Sbianco. Comincio a tremare. Dopo un interminabile minuto di silenzio riesco un po’ a riprendermi, ma le parole mi escono come filtrate, depurate da qualsiasi tono o volume.
    “E con chi saresti stata?”
    “Con Rocco, più di una volta. Altre volte sono stata con lui e Marco insieme. Una sera con Rocco e Eric. Ho passato anche una notte con Veronica, mentre Rocco ci riprendeva con la telecamera. Non ero mai stata con una donna: è stato bello.”
    Ammutolisco letteralmente, pur sentendo i polmoni stracarichi di parole che non vogliono saperne di uscire e mi gonfiano il torace; respiro a fatica. Svengo. In uno stato subcosciente immagino me stesso in procinto di sodomizzare Simo, mentre Rocco ci guarda divertito; lei è a pecora e mi sta supplicando di sfondarle lo sfintere. La accontento, ma quando ad un tratto gira il volto verso di me… sono io! Mi sto inculando mentre Rocco e Simona se la ridono spassosamente.
    Mi sveglio su un lettino in un pronto soccorso. Simona è lì davanti a me. Sono inebetito ma ricordo tutto; cerco di mettere a fuoco il viso di Simo, piano piano: sta sorridendo compassionevole e mi carezza la fronte. Vorrei dire qualcosa, vorrei piangere, vorrei correre via, ma compare mia madre e con le sue parole conclude questa storia, la mia storia, una storia d’amore. Fa’: “Sembrate proprio fatti l’uno per l’altra.”



OMICIDIO SULLA SPIAGGIA

Non potevo aspettare oltre. Erano circa due anni che vagavo tra gli spessi muri del mio dedalo mentale per trovare una soluzione, o meglio, una conclusione alla storia che mi legava a  Katia da oltre sei anni. Ultimamente lei era sempre cupa ed io, nonostante la amassi ancora e ne fossi sostanzialmente geloso, mi ero stancato del nostro rapporto. L’incantesimo dei primi tempi insieme si era spezzato ed ora qualcosa di contorto e spaventoso mi martellava continuamente in testa; udivo una voce lontana ma chiara ripetermi: “devi eliminarla, devi eliminarla, devi eliminarla… dalla tua vita!”.
    Una notte, sulla spiaggia di Rimini, misi in pratica i consigli della mia coscienza ormai turbata la quale mi consigliava tramite quella voce spettrale. Eravamo solo io e Katia, nessun testimone in giro; una coppietta aveva da poco finito di fare l’amore su una sdraio ad una cinquantina di metri da noi e tra baci e coccole se ne stavano ora andando. Seduti sulla sabbia in riva al mare li avevamo osservati in silenzio ed entrambi avevamo provato, ne sono sicuro, una certa nostalgia per quei tempi vitali e romantici in cui ci bastava un bacio o una carezza per riempirci di gioia e mandarci il cuore in fibrillazione. Poi, sempre senza fiatare, ci eravamo messi a guardare i flutti infrangersi sull’arenile. Tremavo ma ormai la decisione era presa, l’insano gesto, da me tanto paventato nella sua esecuzione, stava per essere compiuto. Mi voltai di scatto, all’unisono con Katia; lei notò il mio turbamento e con un’inquietudine  dipinta sul volto non inferiore alla mia mi chiese cosa stavo nascondendo sotto la giacca di jeans, quella vecchia giacca di jeans ormai slavata come il sentimento che in quel momento ci univa. Ero lì lì per farlo quando… lei mi anticipò:
    “Micio, non ti amo più. Lasciamoci!” mi disse con voce stentorea.
    “Sì, cre… credo che che sia giusto co… così” riuscii a balbettare.
    Cosa avevo sotto la giacca? Un cuore spezzato. Volevo uccidere un amore già morto e ci avevo impiegato mesi, forse, riflettendo, persino anni per scoprirlo su una fottuta spiaggia romagnola. Il coltello di parole che mi trapassò il cuore mi uccise, metaforicamente parlando, per molto tempo e penso proprio che la sua cicatrice mi accompagnerà fino alla fine dei miei giorni benché abbia faticato tanto nel tentativo di risorgere e vi sia infine riuscito. Katia mi aveva assassinato solo per non aver agito qualche secondo prima di lei… o forse per non aver mai capito che da tempo il meccanismo del nostro rapporto si era inceppato.
    Dopo aver tanto rimuginato scoprivo di colpo che NO, NON VOLEVO PERDERLA, ma ormai era troppo tardi, ero stato eliminato… dalla sua vita… E dalla mia! 

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