CARA TOPINA
Ti invidio anche. Vorrei essere un artista
come lo sei stata tu, capace di creare il più alto esempio di opera d’arte: un
figlio. Invidio da morire pure la tua normalità piccolo borghese: la famiglia,
il lavoro, gli orari da rispettare, la sicurezza economica, gli status symbol;
mentre io sono destinato a vivere su un’isola… l’uomo isola… bel titolo per un
romanzo, che ne dici?
Ti dicevo dello scatolone. Mentre toglievo
accuratamente il nastro adesivo che lo sigillava, il mio cuore ha preso ad
andare all’impazzata. Non appena ho scorto le foto, le lettere che mi scrivesti
(così ricche di candore e ingenuità), i pupazzetti, la catenina d’oro che mi
regalasti a Natale, la fedina dell’“amore eterno”, non ce l’ho fatta e ho
pianto, con quel senso di angoscia che prova un bambino che non trova più la
sua mamma in mezzo a una gran folla. Dopo aver guardato tutte le foto e ripercorso
le tappe della nostra storia insieme – il mare, la montagna, i compleanni, gli
anniversari, ecc. – ho avuto un black out. Mi sono sdraiato per terra con il
volto rivolto verso l’alto (ero in granaio, il nascondiglio segreto della
“scatola dei sogni”), ho lasciato che le lacrime mi si asciugassero da sole e
mi sono acceso una sigaretta. Sono stato in trance per dieci minuti, poi ho
voluto rileggere le tue lettere d’amore e le brutte copie delle mie (mamma mia
quante ne ho scritte!). Eravamo due ragazzini, è evidente, e io molto più di te
ma la purezza e l’innocenza e la gioia e la tenerezza e la solennità e la forza
dei sentimenti che trasparivano, oggi come allora, da quelle parole, non può
essere rappresentato in nessun
capolavoro della letteratura mondiale, né ora né mai. Credimi. Di errori ne ho
fatti per meritarmi il castigo di perderti, però sappi che insieme, tu ed io,
abbiamo realizzato l’Idea Definitiva: l’Amore. Ma nessuno potrà mai apprezzarla
o copiarla perché essa si è dissolta, è svanita con l’avvento della
disillusione. Ed ora che tu, avvolta nella confortevole bambagia di “donna
riuscita”, continui a fungermi da musa ispiratrice senza nemmeno sospettare che
un uomo è morto per la pena che gli hai inflitto; ora che nonostante costui sia
risorto dalle sue stesse ceneri per diventare un traduttore di sogni e speranze
abbacinanti; ora che le parole, i pensieri e i fatti valgono meno di niente;
ora che il mondo inizia la sua parabola discendente; ora che “se io” e ora che
“se tu”, ora e per sempre, io dico: Vaffanculo! Richiudo la scatola. E questa
volta dentro ci metto anche te.
UNA DOLCE STORIA D’AMORE
Mia madre mi saluta distrattamente: è al
telefono con la sua cara amica Adele. Salendo le scale per andare nella mia
camera da letto, la sento dire: “Hai sentito di Michele Pozzi? Lo hanno portato
a San Patrignano. Quella povera donna di sua madre non meritava una simile
disgrazia; per fortuna i miei figli hanno già passato l’età critica per cadere
nel tunnel della droga. Sai Ade, non per modestia ma credo di averli cresciuti
proprio bene i miei Stefano e Lucrezia…”
Sdraiato sul letto penso che non è
possibile avere una limitatezza di vedute come ha mamma: ho ventotto anni e lei
pensa che sono al sicuro. Come ragiona? Cosa ne sa?
Un riflesso condizionato – provocato dall’ignoranza
pedagogica di mia madre – mi induce ad aprire un cassetto del comodino; un
righino di cocaina è proprio quello che ci vuole. Telefono a Simona, la mia
ragazza.
“Ciao Simo, ti va di farti un giro in
centro? Sì? Ocappa, tra mezz’ora passo a prenderti… sì… ciao.”
Quando sto per uscire di casa, le due
comari sono ancora al telefono. La mia vecchia si sta infervorando: “Hai visto
il tiggì? Finalmente hanno arrestato quel pedofilo di Milano, quello che faceva
quelle brutte cose con la nipotina e la figlia. Maledetti pervertiti, io li
impiccherei tutti…”
Non sono certo
in disaccordo con le sue parole, ma se sapesse che ho sverginato io mia cugina
Vittoria (di soli tredici anni) e mi sono fatto fare un pompino da zia Carmela
mentre il suo amante (Rocco, un mio caro amico) le faceva il culo, chissà come
ci rimarrebbe male ‘sta povera cristiana!?
Salendo sullo scooter scuoto la testa con
un sorriso a metà tra il beffardo e il perplesso. Quando arrivo a casa di
Simona, lei mi sta aspettando giù in strada. La carico didietro.
“Come sono contenta per tua sorella! Non
vedo l’ora che si sposi e nasca il bambino. Beata lei! Quand’è che nascerà?” mi
fa prima di partire.
“Dovrebbe nascere i primi di dicembre” le
rispondo, poi, sbalordito esclamo: “Beata lei!?”
“Come dici Ste?”
“No niente, niente.”
Ci avviamo e mentre mi dirigo verso il
centro città realizzo quanto insolite siano state quelle due parole pronunciate
da Simo: beata lei. Cioè, voglio dire… beata lei ‘sto par di coglioni!
Impregnata da quel buzzurro del suo maschio, terrone megalomane, e a un passo
dalla sepoltura matrimoniale… beata lei? Non scherziamo. Per di più verranno a
vivere qui in casa con me ed i miei, con quel segaiolo scassacazzo di mio padre
tutto il giorno ubriaco e mia madre sempre dietro a brontolare; ci vedo proprio
un bel quadretto familiare. Forse è meglio che mi trovi un lavoro fisso e me ne
vada di casa. Oggigiorno lo spaccio di stupefacenti non garantisce più, qui a
Bologna, l’agiatezza di un tempo; tutti ‘sti merdosi magrebini hanno
monopolizzato il mercato e per i pesci piccoli come me non c’è più spazio.
L’unica sicurezza che ho, per fortuna, è
Simo, una persona adorabile: se non ci fosse lei sarebbero sicuramente cazzi
acidi. L’ho conosciuta cinque anni fa, amica di un’amica di Rocco, ci siamo
subito piaciuti. A quel tempo frequentavo ancora l’università, ma già stavo
meditando di abbandonarla, dato che mi sembrava solo di perdere del tempo
prezioso per il mio futuro; subito dopo averla lasciata infatti mi sono dato
allo spaccio, un lavoro onesto, fonte di guadagno per chi non vede differenza
tra un imprenditore e un operaio di infimo livello: trattasi pur sempre di dare
e prendere, di calpestare ed essere calpestati, di vivere e morire. Ricordo
ancora come se fosse ieri la prima uscita che facemmo insieme. Passammo
un’intera notte a chiacchierare seduti sulla scalinata della chiesa di San
Petronio. Rimasi folgorato dalla sensibilità, dall’arguzia e dalla sottile
ironia che traspariva dalla sua solida personalità.
“La spiritualità non è altro che atmosfera.
Senza atmosfera non può esserci spiritualità; ma senza spiritualità può
comunque esserci atmosfera. Lo spirito è un ologramma proiettato
dall’atmosfera, ovvero dall’ambiente, il più delle volte positivo, che ci
circonda” mi spiegò.
Io non ci capivo un granché ma ero
affascinato. Diceva: “Colei che sa, non ha bisogno di parlare”; oppure: “ Chi
ha dato del tu alla morte non darà mai del lei alla vita”, e così via. Aveva ed
ha tuttora un repertorio di massime vasto e interessante. Tante volte non
capisco quello che dice, però rimango incantato ad ascoltarla lo stesso. Siamo
molto diversi ma anche molto simili nel concepire la vita. “Carpe diem” è il
motto che ci unisce. Lei è sicuramente più matura di me (anche se più giovane)
e pure più acculturata; quella prima serata trascorsa insieme mi fece un sunto
delle caratteristiche e differenze che distinguevano beatniks, dadaisti e lost
generation. Mi raccontò dei suoi trascorsi di militante radicale e poi di
anarchica; mi disse quanto amava leggere il suo conterraneo Sciascia e John
Fante. Più parlava, più non capivo nulla, più mi innamoravo.
Sono passati tanti mesi da allora e mi
rendo conto di aver intrecciato un legame inscindibile con Simo. Non sa che
spaccio droga; non sa nemmeno – ci mancherebbe! – che non appena mi capita di
fare qualche scopata extra con altre ragazze non mi tiro indietro, anzi, lo
considero un trascurabile vizietto che ha lo scopo terapeutico di rafforzare
sempre di più una relazione a prova di bomba.
Ma eccoci qui adesso, in giro per Bologna;
prendiamo un paio di birre in bottiglia e ci sediamo, oggi come allora, sui
gradini di San Petronio. Mi sento particolarmente romantico. Sarà forse
l’atmosfera, come diceva lei, a mettermi in questa predisposizione d’animo? Non
lo so, fatto sta che la abbraccio dolcemente.
“Ti amo Simo!” dico.
Lei non risponde. Forse si sta facendo
cullare dal momento così tenero. Ripenso al “beata lei” esclamato poco prima
sullo scooter e realizzo che non era un’ “uscita” da Simona: non si era mai
mostrata incline al matrimonio, proprio come me. Quelle parole suggerivano un
cambiamento di rotta nei programmi e negli ideali della mia ragazza. La stringo
più forte. Lei mi guarda, mi sorride, poi mi bacia ma freddamente, le si
inumidiscono gli occhi.
“Ste, ti devo confessare una cosa.”
Siamo così innamorati, penso, se mi dirà
che mi vuole sposare le dirò di sì, dopo tutto è anche ora che mi sistemi, che
metta la testa apposto.
“Non so come dirtelo” prosegue un
po’ imbarazzata.
Le sorrido. La incoraggio con il pensiero:
su, non è difficile. In fondo siamo giunti alla logica conclusione, al
traguardo che in questi cinque anni ci ha resi una persona unica.
“Sono stata con un altro!”
What?
“Con diverse persone!”
Sbianco. Comincio a tremare. Dopo un
interminabile minuto di silenzio riesco un po’ a riprendermi, ma le parole mi
escono come filtrate, depurate da qualsiasi tono o volume.
“E con chi saresti stata?”
“Con Rocco, più di una volta. Altre volte
sono stata con lui e Marco insieme. Una sera con Rocco e Eric. Ho passato anche
una notte con Veronica, mentre Rocco ci riprendeva con la telecamera. Non ero
mai stata con una donna: è stato bello.”
Ammutolisco letteralmente, pur sentendo i
polmoni stracarichi di parole che non vogliono saperne di uscire e mi gonfiano
il torace; respiro a fatica. Svengo. In uno stato subcosciente immagino me
stesso in procinto di sodomizzare Simo, mentre Rocco ci guarda divertito; lei è
a pecora e mi sta supplicando di sfondarle lo sfintere. La accontento, ma
quando ad un tratto gira il volto verso di me… sono io! Mi sto inculando mentre
Rocco e Simona se la ridono spassosamente.
Mi sveglio su un lettino in un pronto soccorso.
Simona è lì davanti a me. Sono inebetito ma ricordo tutto; cerco di mettere a
fuoco il viso di Simo, piano piano: sta sorridendo compassionevole e mi carezza
la fronte. Vorrei dire qualcosa, vorrei piangere, vorrei correre via, ma
compare mia madre e con le sue parole conclude questa storia, la mia storia,
una storia d’amore. Fa’: “Sembrate proprio fatti l’uno per l’altra.”
OMICIDIO SULLA SPIAGGIA
Non
potevo aspettare oltre. Erano circa due anni che vagavo tra gli spessi muri del
mio dedalo mentale per trovare una soluzione, o meglio, una conclusione alla
storia che mi legava a Katia da oltre
sei anni. Ultimamente lei era sempre cupa ed io, nonostante la amassi ancora e
ne fossi sostanzialmente geloso, mi ero stancato del nostro rapporto.
L’incantesimo dei primi tempi insieme si era spezzato ed ora qualcosa di
contorto e spaventoso mi martellava continuamente in testa; udivo una voce
lontana ma chiara ripetermi: “devi eliminarla, devi eliminarla, devi
eliminarla… dalla tua vita!”.
Una notte, sulla spiaggia di Rimini, misi
in pratica i consigli della mia coscienza ormai turbata la quale mi consigliava
tramite quella voce spettrale. Eravamo solo io e Katia, nessun testimone in
giro; una coppietta aveva da poco finito di fare l’amore su una sdraio ad una
cinquantina di metri da noi e tra baci e coccole se ne stavano ora andando.
Seduti sulla sabbia in riva al mare li avevamo osservati in silenzio ed
entrambi avevamo provato, ne sono sicuro, una certa nostalgia per quei tempi
vitali e romantici in cui ci bastava un bacio o una carezza per riempirci di
gioia e mandarci il cuore in fibrillazione. Poi, sempre senza fiatare, ci eravamo
messi a guardare i flutti infrangersi sull’arenile. Tremavo ma ormai la
decisione era presa, l’insano gesto, da me tanto paventato nella sua
esecuzione, stava per essere compiuto. Mi voltai di scatto, all’unisono con
Katia; lei notò il mio turbamento e con un’inquietudine dipinta sul volto non inferiore alla mia mi
chiese cosa stavo nascondendo sotto la giacca di jeans, quella vecchia giacca
di jeans ormai slavata come il sentimento che in quel momento ci univa. Ero lì
lì per farlo quando… lei mi anticipò:
“Micio, non ti amo più. Lasciamoci!” mi
disse con voce stentorea.
“Sì, cre… credo che che sia giusto co…
così” riuscii a balbettare.
Cosa avevo sotto la giacca? Un cuore
spezzato. Volevo uccidere un amore già morto e ci avevo impiegato mesi, forse,
riflettendo, persino anni per scoprirlo su una fottuta spiaggia romagnola. Il
coltello di parole che mi trapassò il cuore mi uccise, metaforicamente
parlando, per molto tempo e penso proprio che la sua cicatrice mi accompagnerà
fino alla fine dei miei giorni benché abbia faticato tanto nel tentativo di
risorgere e vi sia infine riuscito. Katia mi aveva assassinato solo per non
aver agito qualche secondo prima di lei… o forse per non aver mai capito che da
tempo il meccanismo del nostro rapporto si era inceppato.
Dopo aver tanto rimuginato scoprivo di
colpo che NO, NON VOLEVO PERDERLA, ma ormai era troppo tardi, ero stato
eliminato… dalla sua vita… E dalla mia!
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